4 ottobre 2018 - Un mese fa è tornato alla casa del Padre don Giovanni Barbareschi, un sacerdote che mi ha dato tanto e che mi è stato di grande aiuto. Desidero ricordarlo così.
“Mi illumina la certezza che non mi sto avvicinando alla fine, ma all'eterno.
Per questo non voglio mascherare la vecchiaia incalzante simulando una giovinezza che non c'è più.
Così racconta Don Giovanni Barbareschi: Sono stato con
don Carlo (il beato don Carlo Gnocchi n.d.r.) giorno e notte nel corso dell’ultimo mese, fino alla sua morte: per
me è stata l’ esperienza più forte e più
significativa della mia umana vicenda.
Nato a Milano l’11 febbraio 1922
Ordinato sacerdote a Gorizia il 13 agosto 1944
Licenza in Teologia nel 1944
Laurea in Diritto Canonico nel 1948
Prelato d’Onore dal 1994
– Dal 1954 al 1986 Insegnante di religione
nelle scuole medie superiori
– Dal 1957 al 1965 Assistente della Fuci
maschile di Milano
– Dal 1965 al 1987 Direttore della Casa
alpina “Alpe Motta”
– Dal 1981 Giudice del Tribunale
Ecclesiastico Regionale Lombardo
– Dal 1986 Residente a Milano – San Marco
– Dal 1986 al 1995 Presidente dell’Istituto
per il Sostentamento del clero della Diocesi di Milano
– Dal 1992 al 2000 Membro del Consiglio di
Amministrazione della Fondazione “Giuseppe Lazzati”
– Dal 1995 al 2011 Collaboratore del V.E.S.
per la Formazione permanente del clero
– Dal 1997 al 2000 Membro del Consiglio di
Amministrazione delle Scuole Cardinal Ferrari
Il suo nome resta legato alla stagione della
lotta partigiana, quando a Milano, nella casa dove viveva con la madre,
stampava documenti falsi per chi cercava di fuggire alla caccia di nazisti e
fascisti.
Fu uno dei fondatori del giornale clandestino
Il ribelle, pubblicato tra il 1943 e il 1945. Quando il regime fascista mise
fuorilegge il movimento degli scout di cui faceva parte da ragazzo, organizzò
insieme ad altri un gruppo segreto, le Aquile randagie, che ogni domenica si
dava appuntamento alla Loggia dei Mercanti.
Dopo l’armistizio, nel 43, con quel gruppo
diede vita a Oscar, organizzazione con la quale fu attivamente impegnato a
nascondere ebrei e partigiani aiutandoli spesso a fuggire in Svizzera.
Proprio per aver salvato la vita a molti
ebrei, Israele lo ha riconosciuto come uno dei “Giusti tra i giusti”, la più
importante onorificenza a coloro che hanno salvato vite di ebrei perseguitati
dai nazisti e dai fascisti.
Nel 1944, non ancora ordinato sacerdote,
incaricato dal cardinale Schuster, diede la benedizione alle salme di 15 partigiani
fucilati in Piazzale Loreto il 10 agosto di quell’anno.
Celebrò la sua prima
messa il 15 agosto: nella stessa notte fu arrestato dai tedeschi mentre si
stava preparando per accompagnare in Svizzera alcuni ebrei fuggitivi.
Restò in prigione fino a quando il Cardinale
non ne ottenne la liberazione.
Quando in seguito si presentò a lui, Schuster
si inginocchiò e gli disse: «Così la Chiesa primitiva onorava i suoi martiri.
Ti hanno fatto molto male gli Alemanni?».
chiesa di San Pio e Santa Maria in Calvairate - Milano -Italy
Diceva di se stesso:
“Mi illumina la certezza che non mi sto avvicinando alla fine, ma all'eterno.
Per questo non voglio mascherare la vecchiaia incalzante simulando una giovinezza che non c'è più.
Accettando la mia vecchiaia ho perso l'astio nei
riguardi della vita che scivola di mano e l'invidia per coloro che hanno
ancora una vita piena, efficiente, produttiva.
Vorrei essere saggio, irradiante, non aggredire la realtà per dominarla, ma lasciare che essa si riveli a me nella sua totalità e nel suo mistero.
Vorrei essere saggio, irradiante, non aggredire la realtà per dominarla, ma lasciare che essa si riveli a me nella sua totalità e nel suo mistero.
Saggezza
è qualcosa di diverso da una intelligenza più o meno acuta, da una cultura più
o meno vasta. Saggezza è ciò che ti nasce dentro quando l'assoluto e l'eterno
penetrano nella tua coscienza individuale e gettano un fascio di luce su quel
fatto, su quell'avvenimento, su quella persona ... e ogni giorno constato e
verifico: vedo un po' meno chiaramente, sento un po' meno distintamente, ma
capisco un po' di più. E capire è pienezza, è dolore, è amore, è gioia.”
Quando la gravità del male fece capire
che ormai i giorni erano pochi, don Carlo volle celebrare quella che sarebbe
stata la sua ultima Messa.
Lui a letto con addosso la vestaglia blu che metteva
solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da campo, sul
quale c’erano come calice la sua teca e una piccola reliquia di Santa Teresa
del Bambino Gesù - oggetti a lui molto cari, perché li aveva sempre tenuti con
sé quando era cappellano militare in Grecia e in Russia - e il crocefisso che
la mamma gli aveva regalato per la sua prima Messa. «Adesso domandiamo perdono
a Dio con le nostre parole», e ciascuno disse le sue parole. Iniziammo con la
parola dell’uomo.
Leggemmo un passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così: morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955.
E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che ama».
Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca». Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»).
I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi - disse a me -, e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto, ricordava ciascuno. Terminata la consacrazione, volle che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.
Leggemmo un passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così: morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955.
E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che ama».
Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca». Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»).
I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi - disse a me -, e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto, ricordava ciascuno. Terminata la consacrazione, volle che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.
da: “Don Gnocchi. Il prete che cercò Dio tra gli uomini”.
Edito dal Centro Ambrosiano e curato da Emanuele Brambilla
"Con don Carlo abbiamo fatto la
resistenza assieme, insieme abbiamo salvato ebrei, assieme abbiamo fatto
documenti falsi, per salvare ebrei. Siamo diventati molto amici, durante la
resistenza. Poi le nostre vie si sono un po’ separate, ma quando lui si è
accorto di non stare bene, dicembre 1955 il Cardinale Montini va a trovarlo e
gli dice: cosa posso fare per te? e lui chiede che il mio amico don Giovanni possa essere esonerato da
qualsiasi altro impegno sacerdotale e possa restare con me per aiutarmi a
morire bene.
E sono rimasto, per due mesi.
La prima
parte dalla mattina alla sera, poi il 3 gennaio 1956, sono le 8 di sera, io sto
salutandolo per andare via, lui mi dice: no, non andar via stasera! Sta chì,
perchè gù paura....(rimani vicino a me perché ho paura ndr) e da allora non
l'ho più lasciato. Nè di giorno, nè di notte. E' uscito dalla clinica Columbus
in una bara, che anch'io portavo".
Ribelle per amore, è incarcerato a San Vittore
la sera dopo la sua prima messa. Scrive in clandestinità il Ribelle. Viene
catturato più volte e internato, dopo la guerra è assistente ecclesiastico per
la FUCI e l'AGESCI, insegnante per oltre 30 anni al liceo Manzoni. Per diversi
anni ha detto messa alla domenica alle ore 18.00 nella parrocchia di San Pio e
Santa di Calvairate a Milano.