Oriana,
dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata,
guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a
guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora
mancano le Torri Gemelle.
Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi
anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi
nostri colli argentati dagli ulivi.
Io mi affacciavo, piccolo, alla professione
nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da
due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a
vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella
tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una
corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.
Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare
in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente
per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me,
sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due
Torri.
Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza;
nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il
meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha
fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e
taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della
Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al
contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente
chiacchierio.
Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole
giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio
per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra essere ancora
di un’inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo
diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante
lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani
e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria
importanza.
L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile
fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento.
È un
momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate
dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad
aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella
cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come
ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. «Conquistare le passioni mi pare
di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi.
Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella
bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua
volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui
alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata
contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi
davvero di offrirci salvezza?
La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né
nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più
accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il
miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata
ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno
questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno.
Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È
una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto,
immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti
prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di
nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi
delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci
bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a
nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla
Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici,
chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso,
ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza
del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più
terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla
nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra
nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi
siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo,
e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per
mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per
cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche
e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con
tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene
minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova
direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé
un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi
giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in
italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si
intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates
bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a
Mozart). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna
prima di tornare all’Università di Berlino.
La affascinante tesi di
Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal
superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più
profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da
sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della
vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio
impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un
marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda
la prima città.
La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo
Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione
determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere
sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di
vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è
servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della
violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico
del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli
spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non
ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te,
Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri
Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi
interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle
pizzerie israeliane. Un po’di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in
Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i
primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche
e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per
la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire
che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che
cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono
nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di
questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle
potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare,
ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo
non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li
rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto
ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento,
anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono,
assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause
di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi
eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto
di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle
nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è
neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe
la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico
dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o
di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente
diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato
l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson
nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri -
l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da
Garzanti ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo
«contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo
sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la
loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una
analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della
disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli,
complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli
interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti
sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in
Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad
oggi.
Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe
a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal
colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito
dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in
particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo
Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente
in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico».
Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano
e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che
sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi
odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione
israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare
nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere
della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché
non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo
davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili
fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo
con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre
più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei
regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio
ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio
di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le
cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del
petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che
si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il
grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio
obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano
e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche
ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan,
l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare
dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due
delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche
al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande
azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che
di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto
attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla
necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan
nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.
È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a
preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera
con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente
rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare
in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare
all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di
quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto
che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della
Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse
appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e
l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi,
hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare
- «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea
ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America
ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti
intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di
essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in
moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi
di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso
senso.
Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo
della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere
togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte
chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma
penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci
porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un
crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo
«ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una
disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura.
Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una
qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di
quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle
marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto
- è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di
qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere
un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un
enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome
di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi,
Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume,
abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma
questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare
dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione,
invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine
palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli
intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il
nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non
si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della
doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da
noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate
nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli
italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno
migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione,
anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o
il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che
studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il
giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese
affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari
che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide
in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e
letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti.
I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti
valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i
profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco.
Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri»,
per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a
trovare.
Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui
si salvò a malapena.
Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare
e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante
l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati
(«vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui
aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte.
Venne
catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era
ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il
filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una
chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano
lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.
Mi
diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco
parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si
trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque:
«Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome
il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che
si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la
storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.
Ti ricordi, Oriana, Padre
Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo
all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine
del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo
più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non
possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla
guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È
possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più
capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese
due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare:
l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato
timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle
guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli
orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmiò invece ad Einstein, che
divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco
prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato
rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
«Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».
Per difendersi,
Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci).
Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci
delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite
precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in
una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500
persone.
Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei
passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene
buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena
di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della
libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto
di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento
della ragione, occorrono delle prove.
I gerarchi nazisti furono portati dinanzi
al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità
commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere,
gli uni e gli altri, dovutamente impiccati.
Le prove contro ognuno di loro
erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le
prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce
lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a
mo’di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose:
una come te, Oriana, famosa e contestata, amata e odiata.
Come te, sempre
pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su
Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano
il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel
1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un
terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’immagine del
terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il
miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina
l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in
nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo
palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo
ad una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa
essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella
borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica
che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere
costruita in un paese ricco del Primo Mondo.
E la centrale nucleare che fa
ammalare di cancro la gente che ci vive vicino?
E la diga che disloca decine di
migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie
che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai
per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più
conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli
operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il
riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il
terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a
volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune
del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a
fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i
terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i
cittadini dei vari paesi.
Per il momento non ci sono state in Europa
dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come
è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
«Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un
dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo
striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo
«più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere.
Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto
da principi di legalità ed ispirato ad un po’più di moralità. La vastissima,
composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi
schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla
gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel
cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e
scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la
maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un
crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli
Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote
al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato
costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa
al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni
climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro
principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima
tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a
causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata
di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di
liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua
lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se
vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a
Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana.
Anche a me ogni volta che, come
ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato,
tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si
sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia,
prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era
più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si
attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in
Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È
così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito
all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza
del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva
andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una
tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A
tanti negozi di moda.
Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto,
anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più
divine montagne del mondo.
Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed
immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare
delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La
natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere
lezione.
Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la
scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata,
finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente
e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai
davanti e di quelle che non ci sono più.
Guarda un filo d’erba al vento e
sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di
tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai
da nessuna parte.
- Tiziano Terzani -
(Grazie per l'autorizzazione al Portale RayPlay)
Buona giornata a tutti :-)