"Don Valerio" disse il medico. "Forse è meglio che parliate voi." "Bene" cominciò il Melito. "Sapete chi era quell'individuo che vi ha aiutato a tirar su la carrozza?" "Non so, uno zingaro, ho pensato, un vagabondo..." "No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell'uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle." "Una cosa che comincia per elle?" ripeté meccanicamente lo Schroder, cercando nella memoria, e un'ombra di apprensione gli si era distesa sul volto. "Un ladro? volete dire?" fece il mercante illuminandosi in volto per la sicurezza di aver indovinato.
Il Melito e il dottore, in piedi, si erano accostati l'un l'altro, appoggiando le schiene all'uscio. Nessuno dei due ora sorrideva più. "Né un ladro né un lanzichenecco" disse lentamente il Melito. "Un lebbroso, era." Il mercante guardò i due uomini, pallido come un morto. "Ebbene? E se anche fosse stato un lebbroso?" "Lo era purtroppo di certo" disse il medico, cercando pavidamente di ripararsi dietro le spalle di Don Valerio. "E adesso lo siete anche voi."
Il Melito insinuò fuori del mantello
una canna della pistola. "Sono l'alcalde, caro signore. Calmatevi, vi
torna conto. "Vi farò vedere io chi sono!" urlava lo Schroder.
"Che cosa vorreste farmi, adesso?" Il Melito scrutava lo Schroder,
pronto a prevenire un eventuale attacco. "In quel pacchetto c'è la vostra
campanella" rispose. "Uscirete immediatamente di qui e continuerete a
suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che
non sarete uscito dal regno."
"Ve la farò vedere io la
campanella!" ribatté lo Schroder, e tentava ancora di gridare ma la voce
gli si era spenta in gola, l'orrore della rivelazione gli aveva agghiacciato il
cuore. Finalmente capiva: il dottore, visitandolo il giorno prima, aveva avuto
un sospetto ed era andato ad avvertire l'alcade. L'alcade per caso lo aveva
visto afferrare per un braccio, tre mesi prima, un lebbroso di passaggio, ed
ora lui, Schroder, era condannato.
"Me ne vado senza bisogno dei
vostri ordini, canaglie, vi farò vedere, vi farò vedere..."
"Mettetevi la giacca" ordinò il Melito, il suo volto essendosi illuminato
di una diabolica compiacenza. "La giacca, e poi fuori
immediatamente." "Aspetterete che prenda le mie robe" disse lo
Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo. "Appena ho impacchettato le
mie robe me ne vado, statene pur sicuri."
"Le vostre robe devono essere
bruciate" avvertì sogghignando l'alcade. "La campanella prenderete, e
basta." "Le mie robe almeno!" esclamò lo Schroder, fino allora
così soddisfatto e intrepido; e supplicava il magistrato come un bambino.
"La giacca, la mantella, e basta. L'altro deve essere bruciato. Carrozza e
cavallo sono stati bruciati, come ordina la legge" rispose l'alcade,
godendo della sua disperazione. "Non vi immaginerete che un lebbroso se ne
vada in giro in carrozzella, no?" E diede in una triviale risata. Poi,
brutalmente: "Fuori! fuori di qua!" urlava allo Schroder. "Non
immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane
" Lo Schroder tremava tutto, grande e grosso com'era, quando uscì dalla
camera, sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo
inebetito.
"La campana!" gli gridò
ancora il Melito facendolo sobbalzare; e gli sbattè dinanzi, per terra, il
pacchetto misterioso, che diede una risonanza metallica. "Tirala fuori, e
legatela al collo. Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo!" Le mani dello
Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l'ordine
dell'alcade.
Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni movimento. "Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come te. Va' che bel lebbroso!" infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sbalordito dalla scena ripugnante.
Lo Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le
scale. Dondolava la testa da una parte e dall'altra come certi cretini che si
incontrano lungo le grandi strade. "Avanti, avanti!" incitava intanto
l'alcade come a una bestia. "Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve
sapere che arrivi!" Lo Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo
egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la
piazza.
Decine e decine di persone facevano
ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La
piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la
campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva.
- Dino Buzzati -
riduzione da: "La boutique del mistero", ed. Mondadori, Milano
Nel documento pubblicato il 29 febbraio 2020 concernente le direttive per affrontare e combattere la diffusione del Coronavirus, l’OMS indica come misura primaria la quarantena, strumento classico per il contenimento delle crisi epidemiche nella storia europea (e non solo).
Com’è noto, almeno dal XIV secolo, ai
tempi della cosiddetta peste nera, le città costiere italiane imponevano
quaranta giorni di segregazione e isolamento alle navi che si avvicinavano ai
loro porti.
La parola quarantena è d’origine veneziana e cominciò a circolare proprio in quel periodo.
L’idea di fondo della
quarantena, come quella più generale dell’isolamento e della segregazione, era
ed è quella di separare il malato, l’infetto, l’appestato dal mondo dei sani.
Quest’operazione, per noi ovvia, semplice, quasi banale, ha un fondamento
biblico. Essa cela una nefasta insidia etico-politica che, surrettiziamente,
s’insinua ancora oggi nel nostro modo di agire e pensare nel quadro delle
pratiche d’isolamento e segregazione in campo igienico-sanitario.
Il capitolo 13 del Levitico, nella Vulgata, è interamente dedicato alla lebbra,
una malattia che ha avuto un carattere epidemico rilevante nel mondo giudaico-cristiano almeno dall’ antichità classica sino alla seconda metà del XIV secolo. ….Nel capitolo 13, Dio, rivolgendosi a Mosè e ad Aronne, dà a quest’ultimo alcune precise indicazioni su come comportarsi in qualità di sacerdote, responsabile del benessere degli Israeliti, e quindi di braccio terreno dell’autorità divina. Tocca al sacerdote, sulla base delle indicazioni fornite nel Levitico, indicare chi è “lebbroso” (impuro, segnato).
Tale diagnosi o, se vogliamo, il riconoscimento effettuato dal sacerdote implica, per il bene comune del popolo, la messa in opera di una pratica d’esclusione sociale: «Il lebbroso, affetto da questa piaga, porterà le vesti strappate e il capo scoperto; si coprirà la barba e griderà: ‒ Impuro! Impuro! ‒ Sarà impuro tutto il tempo che avrà la piaga; è impuro; se ne starà solo; abiterà fuori del campo.» (Levitico 13, 45-46).
Il medesimo
comportamento è ingiunto da Dio a Mosè in un passo del libro dei Numeri:
«Ordina agli Israeliti che allontanino dall’accampamento ogni lebbroso,
chiunque soffre di gonorrea o è impuro per il contatto con un cadavere.
Allontanerete sia i maschi sia le femmine; li allontanerete dall’accampamento
perché non contaminino il loro accampamento in mezzo al quale io abito». (Numeri, 5, 1-3).
Levitico 13 e Numeri 5 contengono tre
elementi che vale la pena mettere in evidenza e che caratterizzano le pratiche
di esclusione e confinamento sociale sino ai giorni nostri:
1) la designazione dell’impuro è fatta
da un’autorità superiore (il potere religioso, politico, medico) in nome della
salvaguardia della comunità;
2) i puri e gli impuri, i sani e i
malati devono vivere in spazi separati;
3) inevitabilmente, la designazione
degli impuri (i lebbrosi, i contagiati, gli untori) comporta la loro
stigmatizzazione: la loro riduzione al segno (difforme, anomalo, tipico) che li
contraddistingue, segno che dev’essere obbligatoriamente esposto, gridato, per
poter essere riconosciuto, tenuto a distanza, segregato.
Attenzione perché, di fatto, queste
righe della Bibbia, lette alla luce di quanto la storia ci ha poi mostrato nei
processi di esclusione e confinamento per motivi igienico-sanitari, hanno
consentito molti comportamenti e la creazione di dispositivi che hanno
legittimato, sul piano sociale e politico, l’espropriazione della vita sociale,
se non addirittura della vita biologica non soltanto dell’impuro, ma anche
dell’anormale, del diverso, sinanco dello straniero.
articolo di Andrea Carlino
https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Storie_virali_Separare__il_puro_dall_impuro.html
Bibliografia per approfondire:
Erwin Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Englewood Cliffs, N.J., Prentice-Hall, 1963
Mary Douglas, Purity and Danger: An Analysis of Concepts of
Pollution and Taboo, Abingdon-on-Thames, Routledge and Kegan Paul,
1966 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1975)