«Padre, perdona loro perché non sanno
quello che fanno»
Dopo aver detto, con lacrime e sudore di
sangue, il suo sì filiale al Padre, Gesù acquista forza ed è pronto ad
affrontare la Passione tacendo davanti alla menzogna e all’umiliazione, deciso
a portare a compimento la sua missione salvifica.
Condannato a morte senza un
regolare processo, si avvia, portando la croce, verso il Calvario.
Durante la
faticosa salita, egli è il buon Pastore che porta sulle sue spalle non tanto
una croce di legno quanto l’umanità, ossia la pecorella smarrita che è venuto a
cercare per riportarla nell’ovile del Padre sulle proprie spalle. Siamo dunque
noi la sua vera croce.
Il Calvario, luogo della più ingiusta esecuzione
capitale, in forza di questo «più grande» amore, spinto fino all’estremo dono di
sé, si trasforma nel monte del sacrificio redentore, nel monte
dell’intercessione e del perdono.
Colui che durante il processo «non aprì la
sua bocca» e, spogliato delle sue vesti, si rivestì di sacro silenzio – «Jesus
autem tacebat», dice l’evangelista Matteo usando qui l’imperfetto a
sottolinearne la profondità e la durata – ora che è reso del tutto impotente ed
è là sospeso tra cielo e terra, inchiodato e senza alcuna difesa, in una
disfatta che sembra totale, ora egli parla.
E la prima parola che udiamo da lui
sulla croce è perdono, vale a dire «per-dono», dono al superlativo, dono di
quell’amore che l’ha spinto lì: «Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno».
Commenta l’abate Elredo di Rievaulx: «'Padre', dice, 'perdonali'.
Che cosa si poteva aggiungere di dolcezza, di carità a una siffatta preghiera?
Tuttavia egli aggiunse qualcosa. Gli sembrò poco pregare, volle anche scusare.
'Padre, disse, perdona loro perché non sanno quello che fanno'. E invero sono
grandi peccatori, ma poveri conoscitori. Perciò: 'Padre, perdonali'.
Crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché 'se l’avessero conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria' (cfr.1Cor 2,8); perciò: 'Padre, perdonali'.
Crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché 'se l’avessero conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria' (cfr.1Cor 2,8); perciò: 'Padre, perdonali'.
Lo ritengono un trasgressore della
legge, un presuntuoso che si fa Dio, lo stimano un seduttore del popolo. 'Ma io
ho nascosto loro il mio volto, non riconobbero la mia maestà'. Perciò: 'Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno'»
( Specchio della carità III,5).
«Oggi sarai con me nel Paradiso»
Sull’alto monte del Calvario, quasi alberi nudi contro il cielo primaverile, si
stagliano tre croci.La tradizione artistica, con giusta intuizione, ha sempre voluto che quella posta al centro fosse più alta; su di essa si impone all’attenzione una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Gesù è là, inchiodato alla croce tra due malfattori, provocato e deriso dai capi e dai soldati, abbandonato dai discepoli, guardato da lontano dalla folla che prima l’aveva seguito, ascoltato e osannato per le sue parole e i suoi miracoli: ecco ora il più inconcepibile scandalo dell’impotenza.
Un «re da burla» che non si difende e che non è difeso
da nessuno, nemmeno con una parola…
È una condizione estremamente umiliante, ma
è la vera via regale scelta da Cristo per sé e da lui proposta ai suoi
discepoli: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il
mio servitore» ( Gv 12,26). E ancora: «Imparate da me, che sono mite e umile di
cuore» ( Mt 11,29).
Soltanto la fede ci fa intuire che in tale stato di povertà e di umiliazione, di spogliazione e di morte è nascosto un grande mistero di grazia, una realtà bella e desiderabile.
Soltanto la fede ci fa intuire che in tale stato di povertà e di umiliazione, di spogliazione e di morte è nascosto un grande mistero di grazia, una realtà bella e desiderabile.
Fu questa la fede del «buon ladrone» che, solo, riconobbe
nel suo compagno di sventura un vero re, un re paziente, che pativa
ingiustamente misconoscimento e ingratitudine da parte di coloro – noi tutti –
che egli non si vergognava di chiamare fratelli.
E per quella sua fede il ladro
ebbe il coraggio, in mezzo alle bestemmie e alle parole irrisorie, di chiamarlo
per nome, di riconoscerlo «salvatore» e di rivolgergli un’umile preghiera di
supplica: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno», rubando così
all’ultimo istante il passaporto per entrare nel più bello di tutti i regni e
ricevere in eredità una ricchezza incalcolabile.
Ebbe, infatti, la grazia di
sentirsi dire: «Oggi con me sarai nel paradiso» ( Lc 23,43). Il ladrone entra
con il Re nel regno della gloria! Così il Cristo esercita la sua regale
autorità. Nell’umiltà del suo amore egli arriva all’estremo sacrificio per dare
all’uomo la libertà, la salvezza, la vita nel suo regno glorioso.
Un inno della Liturgia delle Ore così ci fa cantare: «Egli non con stragi, con violenza e terrore ha soggiogato i regni: sollevato sull’alto della croce, tutto ha tratto a sé con forza d’amore».
Un inno della Liturgia delle Ore così ci fa cantare: «Egli non con stragi, con violenza e terrore ha soggiogato i regni: sollevato sull’alto della croce, tutto ha tratto a sé con forza d’amore».
«Donna, ecco tuo figlio!... Ecco tua madre!»
Tutto il tumulto della più tragica giornata
della storia sembra ora placarsi. Sulla vetta del Golgota verso sera spiccano
soltanto tre persone, tre esili figure: Gesù agonizzante, la Madre e Giovanni,
il discepolo dal cuore vergine, capace di amare con totalità di dedizione,
senza paura di morirne.
Come Maria.
E si distinguono ormai soltanto alcune
brevi parole: brevi ma intense, essenziali, cariche di potenza creatrice,
perché cariche d’amore: «Donna, ecco tuo figlio!… Ecco tua madre!». La consegna
della Madre al discepolo è il supremo testamento d’amore lasciatoci da Gesù.
Nelle tenebre del Venerdì Santo una luce rifulge; in un raccapricciante
scenario di morte avviene un mirabile atto creativo. Maria rappresenta qui la
nuova Eva dalla quale nasce una prole nuova: la stirpe dei figli di Dio.
Donna,
ecco tuo figlio!
Mentre sta presso la croce e consuma nel cuore l’immenso dolore della Passione del Figlio, dal Figlio stesso Maria è investita di una maternità spirituale e universale che la rende davvero grande più di ogni altra creatura. Diventa madre di tutta l’umanità, perché – come dice sant’Agostino – Gesù, in forza del suo amore, essendo unico presso il Padre non ha voluto rimanere solo (cfr. Discorsi, 194,3).
Mentre sta presso la croce e consuma nel cuore l’immenso dolore della Passione del Figlio, dal Figlio stesso Maria è investita di una maternità spirituale e universale che la rende davvero grande più di ogni altra creatura. Diventa madre di tutta l’umanità, perché – come dice sant’Agostino – Gesù, in forza del suo amore, essendo unico presso il Padre non ha voluto rimanere solo (cfr. Discorsi, 194,3).
Ecco tua madre! Quale pegno e quale responsabilità!
Giovanni la prende
con sé per riceverne le cure quale figlio, ma anche per averne cura come di una
madre cui è dovuto immenso amore, profonda riverenza e devozione. Da questo
momento Maria è la Madre della Chiesa; è la nostra Madre nella misura in cui
noi instauriamo con Gesù una relazione vitale, prendendo parte al suo mistero
di redenzione come membra del suo stesso corpo. La nostra vita ha quindi le sue
radici nella croce di Gesù, nella stabilità di Maria, nella fedeltà di
Giovanni. Siamo nati là, in quell’ora, dal cuore trafitto di Cristo e siamo
stati affidati da lui al cuore della Madre.
Così siamo nati quali figli di Dio
e siamo nati anche come Chiesa; perciò siamo nati anche come madri, perché
Maria è Madre e Figlia della Chiesa, com’è Madre e Figlia del suo Figlio.
Affidati a lei, riceviamo a nostra volta in lei e da lei la santa Chiesa; la riceviamo come Madre da amare, da onorare; la riceviamo per darle ascolto, per obbedire ai suoi suggerimenti, per camminare con la sua guida nella via della luce quali veri figli di Dio.
Affidati a lei, riceviamo a nostra volta in lei e da lei la santa Chiesa; la riceviamo come Madre da amare, da onorare; la riceviamo per darle ascolto, per obbedire ai suoi suggerimenti, per camminare con la sua guida nella via della luce quali veri figli di Dio.
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?»
Dopo aver pronunziato il suo «testamento
spirituale» e aver consegnato la Madre al discepolo amato, Gesù è ora
totalmente spoglio di ogni divina e umana ricchezza; il Figlio di Dio, ridotto
all’estrema povertà, grida tutta la sua desolazione e l’angoscia di uomo che
sperimenta la dolorosa assenza di ogni sostegno vissuta come assenza di Dio
stesso, come stato di abbandono totale: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?».
Il grido lacerante dell’Uomo-Dio attraversa le nostre tenebre; è
l’ora culminante dell’agonia in cui il Cristo assume veramente tutta la
desolazione, l’angoscia, la paura, il terrore della morte che abitano nel cuore
dell’uomo. Con forti grida e lacrime – dice la Lettera agli Ebrei (cfr. 5,7) –
Gesù pregò colui che poteva liberarlo da morte.
Il pianto di tutto il dolore
delle generazioni umane passa attraverso il cuore di Cristo, sale dalla terra,
penetra nei cieli e ferisce il cuore del Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?». «Dio non può averlo abbandonato – spiega sant’Agostino –
perché lui stesso è Dio». Eppure il Cristo prova questo abbandono, vive questa
estrema desolazione, cade in questo abisso dove le tenebre sono assolute.
È un
mistero. Al grido straziante del Figlio, dell’uomo, Dio non si fa sentire, non
interviene. E tuttavia non è un Dio assente; è un Padre che, per folle amore,
immola il Figlio della sua compiacenza per i « figli dell’ira»; nel Figlio del
suo amore egli immola il proprio cuore, che, tutto donato, diventa puro
silenzio. Ma in quel silenzio c’è la più alta risposta, la più sofferta «com-passione».
È un’ora buia; è l’ora più buia della storia, ma è anche il grembo del nuovo
giorno, per la nascita di un mondo nuovo, per il sorgere di una nuova luce.
Il
lamento di Cristo, infatti, è l’inizio del Salmo 22, che, apertosi con tale
lancinante grido di angoscia, si conclude poi – come la stessa Passione – con
una consegna fiduciosa, con una parola piena di speranza: «E io vivrò per lui
(per Dio), lo servirà la mia discendenza» (vv. 30-31).
Proprio quest’Uomo che
muore avrà una lunga discendenza. L’ora in cui Colui che è la Vita si consegna
alla morte è dunque l’ora della massima fecondità: generazione a prezzo della
morte.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio si fece buio sulla terra…
Questo
è uno spazio di tempo nella giornata, in ogni giornata, che noi dovremmo sempre
trascorrere sotto la croce, poiché quell’ora non si è chiusa, ma perdura e
abbraccia tutta la nostra esistenza.
Noi siamo ancora contemporanei all’agonia
di Gesù, sempre presenti all’ora della sua suprema offerta.
«Ho sete»
Dopo il grido di dolore rivolto al Padre e dopo aver affidato la Madre al
discepolo Giovanni, Gesù esprime con un soffio di voce un’umile domanda da
mendicante, una domanda che tante volte affiora sulle labbra riarse dei
morenti: «Ho sete».
Il gesto di chi, imbevuta una spugna di aceto, gliela porge
è, in mezzo a tante atrocità, un segno di umana compassione, compiuto per
alleviare le sofferenze dell’agonizzante. Ma la sete di Gesù non può trovare
sollievo soltanto in questo, perché è una sete soprattutto spirituale che lo ha
accompagnato lungo tutta la sua esistenza terrena.
È sete di amore. Già
all’inizio della sua missione pubblica, sedutosi, affaticato, presso il pozzo
di Sicar, aveva chiesto alla donna samaritana: «Dammi da bere!»; e l’aveva poi
lui stesso dissetata rivelandosi come Colui che doveva venire a salvarci.
Di
che cosa, infatti, ha sete Gesù se non di noi, della nostra salvezza, della
nostra fede, del nostro amore? La beata Teresa di Calcutta commentava queste
ultime parole di Gesù, dicendo: «Ho sete: queste parole di Gesù non riguardano
solo il passato, ma sono vive qui e ora, dette a noi... Finché non comprendiamo
nel profondo del nostro essere che Gesù ha sete di noi, non potremo cominciare
a conoscere quello che egli vuole essere per noi, e ciò che egli vuole che noi
siamo per lui».
La sete di Gesù è dunque una sete divina; ma è pure un bisogno
della sua umanità che si mette nella nostra situazione di desolata povertà, di
estrema debolezza per condividerla. Scopriamo questa «sete» di Gesù anche
prima, nell’orto del Getsemani, quando, quasi come bambino impaurito, egli si
rivolge ai tre discepoli prescelti con parole di toccante umanità: «La mia
anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate» ( Mc 14,34); sente il
bisogno di non essere lasciato solo. Ed è sempre nel Getsemani che,
rivolgendosi al Padre, dice ancora: «Padre mio, se è possibile, passi via da me
questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» ( Mt 26,39).
La sete
di Gesù è sete di compiere la volontà del Padre, è desiderio della nostra
salvezza… Egli ci ama e ha sete dell’amore di ognuno di noi, perché ciascuno di
noi conta per lui più di tutto il mondo.
Perciò, se noi non ricambiamo il suo
amore, egli rimane assetato e continua a cercarci. Ma come possiamo ricambiare
l’amore se, a causa del peccato, siamo incapaci di amare?
Gesù stesso, morendo
riarso dalla sete, diventa la sorgente inesauribile dell’acqua viva, poiché dal
suo cuore trafitto sgorgano sangue e acqua. Da questa sorgente possiamo
attingere l’amore e la sovrabbondanza della Vita.
L’ora della crocifissione e
della morte di Cristo è quindi l’ora del trionfo dell’Amore e della sua massima
fecondità.
Nella misura in cui beviamo a questa sorgente, veniamo dissetati e
anche dal nostro cuore zampilla una sorgente d’acqua viva offerta a tutti gli
assetati di Dio, del Dio che è inesauribile Amore.
«Tutto è compiuto!»
Le braccia distese sul legno, le mani inchiodate, Gesù è fisicamente del tutto
impotente, agli occhi di tutti appare uno sconfitto. Ma le vie di Dio non sono
le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri…
In realtà, questa è
proprio l’ora che egli ha ardentemente desiderato, e alla quale si è preparato
come all’ora culmine, all’ora della pienezza, in cui – superate tutte le
tentazioni e le insidie – poter dire al Padre: «Consummatum est, tutto è
compiuto, la missione affidatami è stata portata a compimento secondo il tuo
volere».
La preghiera di Gesù per noi ha raggiunto il suo culmine nell’offerta
che egli ha fatto di se stesso al Padre nell’ora della croce, nel grido: «Tutto
è compiuto» ( Gv 19,30). «Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava
del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della
storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato.
Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo.
Così si compie e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia della creazione e della salvezza...»
Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo.
Così si compie e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia della creazione e della salvezza...»
(Catechismo della Chiesa cattolica, n. 26069.
Tutto è compiuto. Tutto è avvenuto secondo
le profezie, tutto è avvenuto secondo il disegno del Padre. L’ora dell’offerta
iniziata con la nascita di Gesù a Betlemme si compie sul Calvario: là era nato
nella estrema povertà, qui muore nell’estrema spogliazione e umiliazione.
È la scelta di Dio, è la scelta dell’Amore
che, volendo ricuperare i miseri, si fa Misericordia, si abbassa, si svuota di
se stesso per riversarsi in noi come sorgente di vita.
Tutto è compiuto: è questo «l’istante
immobile»; il tempo si ferma, l’ora batte sul cuore di Gesù e si riparte da
zero.
È l’ora zero della storia, l’ora in cui
comincia il Giorno nuovo, il tempo nuovo, tempo della salvezza e della grazia.
Tutto il dolore della Passione sembra ora acquietarsi, come la terra che, dopo
aver accolto il seme nel solco, attende nella pace che esso germogli. È l’ora
del «grande silenzio».
È l’ora in cui, come discepoli di Cristo,
più nulla possiamo fare, nulla dire, ma solo «rimanere nel suo amore», rimanere
in preghiera presso di lui, inchiodati alla croce insieme con Maria, la Madre,
formando un’unica grande supplica che, passando attraverso il cuore trafitto
del Cristo, si versa nel seno del «Padre misericordioso e Dio di ogni
consolazione» ( 2Cor 1,3).
A quest’ora della Passione di Gesù si può
riferire quanto diceva il poeta Claudel: il dolore è come una mandorla amara
che si getta sul ciglio della strada; ripassando per la medesima via, vi
troviamo un mandorlo in fiore.
«Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito»
Quando tutto è compiuto, quando il sacrificio di amore
è pienamente consumato, quando non c’è più un «oltre» nell’offerta e nel
dolore, ecco l’ultimissima parola di Gesù: «Padre, nelle tue mani consegno il
mio spirito». Grido di fiducia erompente dal cuore di un Povero che, percosso,
disprezzato, senza via di salvezza umana, si rifugia in Dio, getta in lui ogni
suo affanno.
E in questa totale consegna di sé trova la pienezza della pace, si
ritrova figlio. La Passione di Gesù non si conclude con un «perché» rivolto a
un Dio sentito lontano, assente, ma con un atto di abbandono filiale: «Nelle
tue mani consegno il mio spirito».
Gesù spira riconsegnandosi alle mani del
Padre, a cui aveva sempre obbedito, la cui volontà era stata tutto il suo
desiderio, la sua unica gioia.
Per questo la sua agonia è come una notte che
sfocia nell’alba della risurrezione.
Dalla cattedra della Croce, il Giusto, che
si è caricato di tutte le nostre sofferenze perché ha preso su di sé tutte le
nostre colpe, ci insegna a sperare contro ogni speranza, a sentire che le mani
di Dio sono più forti di qualsiasi mano potente degli uomini, più forti di ogni
tentazione che possa sopraggiungere e abbattersi su di noi.
Perciò anche quando
la prova è dura, terribile e angosciosa, noi dobbiamo gridare: nelle tue mani,
Signore, sono al sicuro. Tuttavia, il grido di Gesù esprime pure lo sgomento di
un figlio che sa di dover ancora compiere un viaggio nell’oscurità per poter
ritornare a casa.
Dopo la sua consegna, infatti, il Verbo della vita, Colui che
il Padre ha mandato a parlare direttamente all’umanità per rivelarle il suo
amore, si immerge nel silenzio della morte. E con il calar della sera, dopo gli
ultimi atti compiuti dall’umana pietà, un profondo silenzio avvolge anche il
monte delle croci e penetra nei cuori.
Noi, che siamo entrati con Gesù in
quest’ora, crediamo davvero che solo apparentemente le tenebre stanno
prevalendo, poiché in esse già si fa strada la luce?
Noi, che conosciamo la
morsa dell’angoscia, crediamo che nel grido di Gesù morente si fa strada la
speranza della Vita?
Noi, che pure facciamo l’esperienza del turbamento per
tanti sconvolgimenti che avvengono nel mondo, ne sappiamo trarre motivo di
pentimento per convertirci a una più grande fede e soprattutto a un più grande
amore?
Mentre il velo del tempio dell’antica Legge si squarcia, che cosa
avviene in noi? Se viviamo davvero il mistero della Croce, si può finalmente
squarciare il nostro vecchio mondo, il nostro vecchio uomo, il velo della
nostra sufficienza; si può spaccare la roccia del nostro cuore per lasciar
scaturire da essa una sorgente d’acqua viva. Presi da santo timore, allora
gridiamo con il centurione: «Costui è veramente il Figlio di Dio!»; poi,
insieme con le pie donne, continuiamo a sostare presso la croce e presso il sepolcro,
sicuri che Gesù, caduto nel silenzio della morte, non è perduto per noi, perché
l’Amore è il più forte e ha vinto.
- Madre Anna Maria Cànopi -
da: "Le sette parole di Gesù in croce. Meditazione e
preghiera" ed. Paoline
un po di biografia: http://leggoerifletto.blogspot.it/2010/08/madre-anna-maria-canopi-biografia.html
Buona giornata a tutti. :-)
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