Intorno al grande lebbrosario sulla collina, a un paio di chilometri dalla città, correva un alto muraglione e in cima al muraglione le sentinelle camminavano su e giù. Tra queste guardie ce n’erano di altezzose e intrattabili, altre invece avevano pietà. Perciò al crepuscolo i lebbrosi si raccoglievano ai piedi del bastione e interrogavano i soldati più alla mano. “Gaspare” per esempio dicevano “che cosa vedi questa sera? C’è qualcuno sulla strada? Una carrozza, dici? E com’è questa carrozza? E la reggia è illuminata? Hanno acceso le torce sulla torre? Che sia tornato il principe?” Continuavano per ore, non erano mai stanchi e, benché il regolamento lo vietasse, le sentinelle di buon cuore rispondevano, spesso inventando cose che non c’erano, passaggio di viandanti, luminarie, incendi, eruzioni perfino del vulcano Ermac, poiché sapevano che qualsiasi novità era una deliziosa distrazione per quegli uomini condannati a non uscire mai di là. Anche i malati gravi, i moribondi partecipavano al convegno portati in barella dai lebbrosi ancora validi.
Soltanto uno non veniva, un giovane entrato nel lazzaretto da due mesi. Era un nobile, un cavaliere, uomo già stato bellissimo, a quanto si poteva indovinare perchè la lebbra lo aveva attaccato con una violenza rara, in poco tempo deturpandogli la faccia. Si chiamava Mseridon.
“Perché non vieni?” gli chiedevano
passando dinanzi alla sua capanna “perché non vieni anche tu a sentire le
notizie? Ci devono essere questa sera i fuochi artificiali e Gaspare ha promesso
che ce li descriverà. Sarà bellissimo, vedrai.”
“Amici” lui rispondeva dolcemente, affacciandosi alla soglia e si copriva la
faccia leonina con un pannolino bianco “capisco che per voi le notizie che vi
dà la sentinella siano una consolazione. Questo è l’unico legame che vi resta
col mondo esterno, con la città dei vivi. È vero o no?”
“Sì certo, è vero.”
“Questo vuol dire che vi siete già rassegnati a non uscire mai di qui. Mentre
io…”
“Tu che cosa?”
“Mentre io invece guarirò, io non mi sono rassegnato, io voglio, capite, voglio
tornare come prima.”
Tra gli altri, dinanzi alla capanna di
Mseridon, passava il saggio e vecchio Giacomo, patriarca della comunità. Aveva
almeno centodieci anni ed era quasi un secolo che la lebbra lo smangiava. Non
aveva più membra di sorta, non si distinguevano più la testa nè le braccia né
le gambe, il corpo si era trasformato in una specie di asta del diametro di tre
quattro centimetri che si teneva chissà come in equilibrio, con in cima un
ciuffo di capelli bianchi e assomigliava, in grande, a quegli scacciamosche che
adoperano i nobili abissini. Come ci vedesse, parlasse, si nutrisse era un
enigma perché la faccia era distrutta né si vedevano aperture nella crosta
bianca che lo rivestiva, simile alla corteccia di betulla. Ma questi sono i
misteri dei lebbrosi. In quanto al camminare, scomparse tutte le articolazioni,
se la cavava saltellando sull’unico piede, tondo anch’esso come il puntale di
un bastone. Anziché macabro, l’aspetto complessivo era grazioso. Praticamente,
un uomo trasformato in vegetale. E siccome era molto buono e intelligente,
tutti gli usavano riguardo.
All’udire le parole di Mseridon, il
vecchio Giacomo si fermò e gli disse: “Mseridon, povero ragazzo, io sono qui da
quasi cento anni e di quanti io trovai o entrarono dipoi nessuno è mai uscito.
Tale è la nostra malattia. Ma anche qui, vedrai, possiamo vivere. C’è chi
lavora, c’è chi ama, c’è chi scrive poesie, c’è il sarto, c’è il barbiere. Si
può anche essere felici, per lo meno non si è molto più infelici degli uomini
di fuori. Tutto sta nel rassegnarci. Ma guai, Mseridon, se l’animo si ribella e
non si adatta e pretende una guarigione assurda, allora ci si riempie il cuore
di veleno”. E così dicendo il vecchio scuoteva il suo bel pennacchio bianco.
“Ma io” ribatté Mseridon “io ho
bisogno di guarire, io sono ricco, se tu salissi sulle mura potresti vedere il
mio palazzo, ha due cupole d’argento che scintillano. Laggiù ci sono i miei
cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere
schiave adolescenti mi aspettano che torni. Capisci, saggio bastoncello, io ho
bisogno di guarire.”
“Se per guarire bastasse averne bisogno, la cosa riuscirebbe molto semplice”
fece Giacomo con una bonaria risatina. “Chi più chi meno, tutti sarebbero
guariti.”
“Ma io” si ostinò il giovane “io per guarire ho il mezzo, che gli altri non
conoscono.”
“Oh lo immagino” fece Giacomo “ci sono sempre dei bricconi che ai nuovi venuti
offrono a caro prezzo unguenti segreti e prodigiosi per guarire. Anch’io ci
cascai quando ero piccolo.”
“No, non uso unguenti io, io adopero semplicemente la preghiera.”
“Tu preghi Dio che ti guarisca? E sei perciò convinto di guarire? Ma tutti noi
preghiamo, cosa credi? Non passa sera che non si rivolga il pensiero a Dio.
Eppure chi…”
“Tutti pregate, è vero, ma non come me. Voi alla sera andate ad ascoltare il
notiziario della sentinella, io invece prego. Voi lavorate, studiate, giocate a
carte, voi vivete come vivono pressa poco gli altri uomini, io invece prego,
tranne il tempo strettamente indispensabile per mangiare, bere e dormire, io
prego senza soluzione di continuità e del resto anche mentre mangio io prego e
perfino mentre dormo; tanta è infatti la mia volontà che da qualche tempo sogno
di essere inginocchiato e di pregare. La preghiera che fate voi è uno scherzo.
L’autentica preghiera è una fatica immensa, io alla sera arrivo estenuato dallo
sforzo. E come è duro all’alba, appena sveglio, riprendere subito a pregare, la
morte talora mi sembra preferibile. Ma poi mi faccio forza e mi inginocchio.
Tu, Giacomo, che sei vecchio e saggio, dovresti saperle queste cose. ”
A questo punto Giacomo cominciò a
dondolare come se stentasse a mantenere l’equilibrio e calde lacrime rigarono
la sua scorza cinerina.
“È vero, è vero” singhiozzava il vecchio “anch’io quando avevo la tua età… anch’io
mi gettai nella preghiera e tenni duro sette mesi e già le piaghe si chiudevano
e la pelle tornava bella liscia… stavo guarendo… Ma a un tratto non ce la feci
più e tutta la fatica andò perduta… lo vedi in che stato son ridotto…”
“E allora” disse Mseridon “tu non credi che io…”
“Dio ti assista, non posso dirti altro, che l’Onnipotente ti dia forza” mormorò
il vecchio, e a piccoli saltelli si avviò alle mura, dove la folla era riunita.
Chiuso nella sua capanna, Mseridon
continuò a pregare, insensibile ai richiami dei lebbrosi. A denti stretti, col
pensiero fisso a Dio, tutto in sudore per lo sforzo, lottava contro il male e a
poco a poco ie immonde croste si accartocciavano al bordo e poi cadevano,
lasciando che la Carne sana rinascesse. Intanto la voce si era sparsa e attorno
alla capanna stazionavano sempre gruppi di curiosi. Mseridon aveva ormai fama
di santo.
Avrebbe vinto o tanto impegno non
sarebbe servito a niente? Si erano formati due partiti, pro e contro il giovane
ostinato. Finché, dopo quasi due anni di clausura, Mseridon un giorno uscì
dalla capanna. Il sole finalmente gli illuminò la faccia, la quale non aveva
più segni di lebbra, non assomigliava ai muso di un leone, bensì risplendeva di
bellezza.
“È guarito, è guarito!” gridò la gente incerta se mettersi a piangere di gioia
o lasciarsi divorare dall’invidia. Era guarito infatti Mseridon ma per poter
lasciare il lebbrosario doveva avere un documento.
Andò dal medico fiscale che faceva
ogni settimana l’ispezione, si spogliò e si fece visitare.
“Giovanotto, puoi dirti fortunato” fu il responso “devo ammettere che sei quasi
guarito.”
“Quasi? Perché” chiese il giovane con amara delusione.
“Guarda, guarda qui la brutta crosticina” fece il medico additando con una
bacchetta, per non toccarlo, un puntino colore della cenere non più grande di
un pidocchio, sul mignolo di un piede “bisogna che tu elimini anche questa se
vuoi che io ti lasci libero.”
Mseridon tornò alla sua capanna e mai seppe neppur lui come fece a superare lo
sconforto. Credeva di essere ormai salvo, aveva allentato tutte le energie, già
si apprestava al premio: e doveva invece riprendere il calvario.
“Coraggio” lo incitava il vecchio
Giacomo “ancora un piccolo sforzo, il più l’hai fatto, sarebbe pazzesco
rinunciare proprio adesso.”
Era una rugosità microscopica sui mignolo ma sembrava che non volesse
arrendersi. Un mese e poi due mesi di ininterrotta potentissima preghiera.
Niente. Un terzo, un quarto, un quinto mese.
Niente. Mseridon stava per mollare quando una notte, passandosi, come faceva
ormai meccanicamente, una mano sul piede malato, non incontrò più la
crosticina.
I lebbrosi lo portarono in trionfo.
Era ormai libero. Dinanzi al corpo di guardia ci furono i commiati. Poi
soltanto il vecchio Giacomo, saltellando, lo accompagnò alla porta esterna.
Furono controllati i documenti, la chiave cigolò girando nella serratura, la
sentinella spalancò la porta.
Apparve il mondo nel sole del primo
mattino, così fresco e pieno di speranze. I boschi, le praterie verdi, gli
uccellini che cantavano, e in fondo biancheggiava la città con le sue torri
candide, le terrazze orlate di giardini, gli stendardi fluttuanti, gli
altissimi aquiloni a forma di draghi e di serpenti; e sotto, che non si
vedevano, miriadi di vite e di occasioni, le donne, le voluttà, i lussi, le
avventure, la corte, gli intrighi, la potenza, le armi, il regno dell’uomo!
Il vecchio Giacomo osservava la faccia
del giovane, curioso di vederla illuminata dalla gioia. Sorrise infatti
Mseridon al panorama della libertà. Ma fu un istante. Subito il giovane
cavaliere impallidì.
“Che hai?” gli chiese il vecchio supponendo che l’emozione gli avesse tolto il
fiato. E la sentinella: “Su, su svelto, giovanotto, passa fuori che io devo
subito richiudere, non ti farai pregare, spero!”
Invece Mseridon fece un passo indietro e si coprì gli occhi con le mani: “Oh è
terribile!”
“Che hai?” ripeté Giacomo. “Stai male?”
“Non posso!” disse Mseridon. Dinanzi a lui, di colpo, la visione era cambiata.
E al posto delle torri e delle cupole, giaceva adesso un sordido groviglio di
catapecchie polverose, grondanti di sterco e di miseria, e invece degli
stendardi, sopra i tetti, nugoli caliginosi di tafani come un infetto
polverone.
Il vecchio domandò: “Che cosa vedi,
Mseridon? Dimmi: vedi marcio e luridume dove prima tutto era glorioso? Al posto
dei palazzi vedi ignobili capanne? È cosi, Mseridon?”
“Sì, sì, tutto è diventato orribile. Perché? Cosa è successo?”
“Io lo sapevo” fece il patriarca “lo sapevo ma non osavo dirtelo. Questo è il
destino di noi uomini, tutto si paga a caro prezzo. Non ti sei mai chiesto chi
ti dava la forza di pregare? Le tue preghiere erano di quelle a cui non resiste
neanche la collera del cielo. Tu hai vinto, sei guarito. E adesso paghi.”
“Pago? E perché?”
“Perché era la grazia che ti sosteneva. E la grazia dell’Onnipotente non
risparmia. Sei guarito ma non sei più lo stesso di una volta. Di giorno in
giorno, mentre la grazia lavorava in te, senza saperlo tu perdevi il gusto
della vita.
Tu guarivi, ma le cose per cui smaniavi di guarire a poco a poco si
staccavano, diventavano fantasmi, cimbe natanti sopra il mar degli anni! Io lo
sapevo. Credevi di essere tu a vincere, e invece era Dio che ti vinceva. Così
hai perso per sempre i desideri. Sei ricco ma adesso i soldi non ti importano,
sei giovane ma non ti importano le donne. La città ti sembra un letamaio. Eri
un gentiluomo, sei un santo, capisci come il conto torna? Sei nostro, finalmente,
Mseridon! L’unica felicità che ti rimane è qui tra noi, lebbrosi, a consolarci…
Su, sentinella, chiudi pure la porta, noi rientriamo.”
La sentinella tirò a sé il battente.
- Dino Buzzati -
dalla raccolta “Sessanta racconti”
Padre Damiano de Veuster (1840-1889) era missionario nelle isole Sandwich.
Lì sentì parlare dell’« Isola maledetta », Molokai, dove venivano segregati e abbandonati alla morte i lebbrosi.
Aveva allora 33 anni, era sano e faceva ovunque un mucchio di bene. Ma volle rinchiudersi in quell’isola del dolore e condividere in tutto la vita di 800 lebbrosi.
A forza di sacrifici, di
solidarietà e d’amore trasformò quell’inferno di morte in un sereno angolo di
pace e di rassegnazione; fu così che l’imitazione di Gesù gli donò la vita
eterna: morì lebbroso tra i suoi lebbrosi.
La malattia di Hansen meglio
conosciuta come lebbra è una malattia infettiva causata da un batterio
bacilliferico chiamato Mycobacterium leprae. È una malattia che colpisce
principalmente il sistema nervoso periferico, la pelle, il tratto respiratorio
e il sistema oculare. Oggi è una malattia che ha una cura fintanto che viene
rilevata nelle prime fasi per evitare la morte e l'invalidità, sebbene nei
tempi antichi fosse una delle cause della mortalità.
A livello storico, la lebbra è stata
una malattia molto antica in cui i malati venivano trattenuti nel lebbrosario e
venivano spesso ripudiati dalla società per paura del contagio. Un punto di
svolta nella gestione di questa patologia fu negli anni '1940 quando fu
sviluppato un farmaco chiamato "dapsone".
È stato un trattamento cronico o per
molti anni che ha reso difficile aderire al trattamento. Il problema si
manifestò intorno al 1960 quando il Mycobacterium Leprae sviluppò un farmaco di
resistenza, quindi i nuovi farmaci dovettero essere riqualificati. Fu allora
che furono scoperte rifampicina e clofazimina che permisero di trattare di
nuovo efficacemente questa malattia.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità
nel 1981 ha raccomandato un trattamento multimedicamento con dapsone,
clofazimina e rifampicina con una durata compresa tra 6 e 12 mesi a seconda del
tipo di bacillo. Questo trattamento consente al paziente di essere curato e di
sterminare il Mycobacterym Leprae.
Sebbene dal 2000 la lebbra non sia
considerata un problema di salute pubblica, l'Organizzazione Mondiale della
Sanità offre attualmente un trattamento gratuito a tutti i pazienti affetti da
lebbra.
Un'alta percentuale di persone che entrano
in contatto con il bacillo non sviluppa la malattia perché il sistema
immunitario è in grado di far fronte all'infezione.
Il modo di trasmissione della malattia
di Hansen è attraverso le goccioline di Flügge (le goccioline che si diffondono
tossendo o parlando) quando una persona è infetta o per contatto con i fluidi
corporei di una persona infetta.
Secondo gli ultimi dati, nel 2017 sono
stati registrati 211.009 casi di lebbra in tutto il mondo secondo i dati
dell'Organizzazione mondiale della sanità.
Bibliografia:
who.int Organizzazione mondiale della
sanità [Internet] Centro stampa, note descrittive. [aggiornato il 10 settembre
2019, citato il 9 gennaio 2020]. Disponibile su: https://www.who.int/es/news-
room / fact-sheet / detail / leprosy
Medlineplus.gov. Biblioteca nazionale
di medicina degli Stati Uniti. [Internet] Enciclopedia medica. [aggiornato il
27 settembre 2017, citato il 9 gennaio 2020]. Disponibile su:
https://medlineplus.gov/spanish/ency/article/001347.htm