Il grattacielo era d’argento, supremo
e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottili filamenti
di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile. Era
infatti l’ora che le città vengono prese dall’ispirazione e chi non è cieco ne
resta travolto.
Dall’ aereo culmine la ragazza vedeva
le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e
là dove il bianco delle case finiva, cominciava il blu del mare che visto dall’
alto sembrava in salita. E siccome dall’ oriente avanzavano i velari della
notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava.
C’erano dentro gli uomini potenti e le
donne ancora di più, le pellicce e i violini, le macchine smaltate d’onice, le
insegne fosforescenti dei tabarins, gli androni delle spente regge, le fontane,
i diamanti, gli antichi giardini taciturni, le feste, i desideri, gli amori e,
sopra tutto, quello struggente incantesimo della sera per cui si fantastica di
grandezza e di gloria.
Queste cose vedendo, Marta si sporse
perdutamente oltre la balaustra e si lasciò andare. Le parve di librarsi
nell’aria, ma precipitava. Data la straordinaria altezza del grattacielo, le
strade e le piazze laggiù in fondo erano estremamente lontane, chissà quanto
tempo per arrivarci. Ma la ragazza precipitava. Le terrazze e i balconi degli
ultimi piani erano popolati in quell’ora da gente elegante e ricca che prendeva
cocktails e faceva sciocche conversazioni.
Ne venivano fiotti sparsi e confusi di
musiche. Marta vi passò dinanzi e parecchi si affacciarono a guardarla.
Voli di quel genere – nella
maggioranza appunto ragazze – non erano rari nel grattacielo e costituivano per
gli inquilini un diversivo interessante; anche perciò il prezzo di quegli
appartamenti era altissimo.
Il sole, non ancora del tutto disceso,
fece del suo meglio per illuminare il vestitino di Marta. Era un modesto abito
primaverile comprato-fatto per pochi soldi. Ma la luce lirica del tramonto lo
esaltava alquanto, rendendolo chic.
Dai balconi dei miliardari, mani
galanti si tendevano verso di lei, offrendo fiori e bicchieri. «Signorina, un piccolo
drink?… Gentile farfalla, perché non si ferma un minuto tra noi?»
Lei rideva, svolazzando, felice (ma
intanto precipitava): «No, grazie, amici. Non posso. Ho fretta d’arrivare.»
«Di arrivare dove?» le chiedevano.
«Ah, non fatemi parlare» rispondeva
Marta e agitava le mani in atto di confidenziale saluto.
Un giovanotto, alto, bruno, assai
distinto, allungò le braccia per ghermirla. Le piaceva. Eppure Marta si schermì
velocemente: «Come si permette, signore?» e fece in tempo a dargli con un dito
un colpetto sul naso.
La gente di lusso si occupava dunque
di lei e ciò la riempiva di soddisfazione. Si sentiva affascinante, di moda.
Sulle fiorite terrazze, tra l’andirivieni di camerieri in bianco e le folate di
canzoni esotiche si parlò per qualche minuto, o forse meno, di quella giovane
che stava passando (dall’alto in basso, con rotta verticale).
Alcuni la giudicavano bella, altri
così così, tutti la trovarono interessante.
«Lei ha tutta la vita davanti» le
dicevano «perché si affretta così? Ne ha di tempo disponibile per correre e affannarsi.
Si fermi un momento con noi, non è che una modesta festicciola tra amici,
intendiamoci, eppure si troverà bene.»
Lei faceva atto di rispondere ma già
l’accelerazione di gravità l’aveva portata al piano di sotto, a due, tre, quattro
piani di sotto; come si precipita infatti allegramente quando si hanno appena
diciannove anni. Certo la distanza che la separava dal fondo, cioè dal livello
delle strade, era immensa; meno di poco fa, certamente, tuttavia sempre
considerevole.
Nel frattempo però il sole si era
tuffato nel mare, lo si era visto scomparire trasformato in un tremolante fungo
rossastro. Non c’erano quindi più i suoi raggi vivificanti a illuminare l’abito
della ragazza e a farne una seducente cometa. Meno male che i finestrini e le
terrazze del grattacielo erano quasi tutti illuminati e gli intensi riverberi
la investivano in pieno via via che passava dinanzi.
Ora nell’interno degli appartamenti
Marta non vedeva più soltanto compagnie di gente spensierata, di quando in
quando c’erano pure degli uffici dove le impiegate, in grembiali neri o
azzurri, sedevano ai tavolini in lunghe file. Parecchie erano giovani come e
più di lei e, ormai stanche della giornata, alzavano ogni tanto gli occhi dalle
pratiche e dalle macchine per scrivere. Anch’esse così la videro, e alcune
corsero alle finestre: «Dove vai? Perché tanta fretta? Chi sei?» le gridavano,
nelle voci si indovinava qualcosa di simile all’invidia.
«Mi aspettano laggiù» rispondeva lei.
«Non posso fermarmi. Perdonatemi.»
E ancora rideva, fluttuando sul precipizio, ma
non erano più le risate di prima. La notte era subdolamente discesa e Marta
cominciava a sentir freddo. In quel mentre, guardando in basso, vide
all’ingresso di un palazzo un vivo alone di luci. Qui lunghe automobili nere si
fermavano (per la distanza grandi come formiche), e ne scendevano uomini e
donne, ansiosi di entrare. Le parve di distinguere, in quel formicolio, lo
scintillare dei gioielli. Sopra l’entrata sventolavano bandiere.
Davano una grande festa,
evidentemente, proprio quella che lei, Marta, sognava da quando era bambina. Guai
se fosse mancata. Laggiù l’aspettava l’occasione, la fatalità, il romanzo, la
vera inaugurazione della vita.
Sarebbe arrivata in tempo? Con
dispetto si accorse che una trentina di metri più in là un’altra ragazza stava precipitando.
Era decisamente più bella di lei e indossava un vestito da mezza sera,
abbastanza di classe.
Chissà come, veniva giù a velocità
molto superiore alla sua, tanto che in pochi istanti la sopravanzò e sparì in basso,
sebbene Marta la chiamasse. Senza dubbio sarebbe giunta alla festa prima di
lei, poteva darsi che fosse tutto un piano calcolato per soppiantarla.
Poi si rese conto che a precipitare
non erano loro due sole. Lungo i fianchi del grattacielo varie altre donne
giovanissime stavano piombando in basso, i volti tesi nell’eccitazione del
volo, le mani festosamente agitate come per dire: eccoci, siamo qui, è la
nostra ora, fateci festa, il mondo non è forse nostro?
Era una gara, dunque. E lei aveva
soltanto un misero abitino, mentre quelle altre sfoggiavano modelli di gran
taglio e qualcuna perfino si stringeva, sulle spalle nude, ampie stole di
visone. Così sicura di sé quando aveva spiccato il volo, adesso Marta sentiva
un tremito crescerle dentro, forse era semplicemente il freddo ma forse era
anche paura, la paura di aver fatto uno sbaglio senza rimedio. Sembrava notte
profonda ormai. Le finestre si spegnevano una dopo l’altra, gli echi di musica
divennero più rari, gli uffici erano vuoti, nessun giovanotto si sporgeva più
dai davanzali tendendo le mani.
Che ora era? All’ingresso del palazzo
laggiù – che nel frattempo si era fatto più grande, e se ne potevano
distinguere ormai tutti i particolari architettonici – permaneva intatta la
luminaria, ma l’andirivieni delle automobili era cessato. Di quando in quando,
anzi, piccoli gruppetti uscivano dal portone allontanandosi con passo stanco.
Poi anche le lampade dell’ingresso si spensero. Marta sentì stringersi il
cuore. Ahimè, alla festa, non sarebbe più giunta in tempo. Gettando un’occhiata
all’insù, vide il pinnacolo del grattacielo in tutta la sua potenza crudele.
Era quasi tutto buio, rare e sparse finestre ancora accese agli ultimi piani. E
sopra la cima si spandeva lentamente il primo barlume dell’ alba.
In un tinello del ventottesimo piano
un uomo sui quarant’anni stava prendendo il caffè del mattino e intanto leggeva
il giornale, mentre la moglie rigovernava la stanza. Un orologio sulla credenza
segnava le nove meno un quarto. Un’ombra passò repentina dinanzi alla finestra.
«Alberto» gridò la moglie «hai visto?
E’ passata una donna.»
«Com’era?» fece lui senza alzare gli
occhi dal giornale. «Una vecchia » rispose la moglie. «Una vecchia decrepita.
Sembrava spaventata.»
«Sempre così» l’uomo brontolò. «A
questi piani bassi non passano che vecchie cadenti. Belle ragazze si vedono dal
cinquecentesimo piano in su. Mica per niente quegli appartamenti costano così
cari.»
«C’è il vantaggio» osservò la moglie «che
quaggiù almeno si può sentire il tonfo, quando toccano terra.»
«Stavolta, neanche quello» disse lui,
scuotendo il capo, dopo essere rimasto alcuni istanti in ascolto. E bevve un
altro sorso di caffè.
- Dino Buzzati -
pubblicato originariamente del 1966 nella raccolte "Il colombre" e successivamente nel 1968 ne "La Boutique del mistero" come 30° capitolo, Oscar Mondadori Editore
Buona giornata a tutti :-)