Nell’interno del Tibesti una guida indigena
mi domandò se per caso volevo vedere le mura della città di Anagoor, lui mi
avrebbe accompagnato.
Guardai la carta ma la città di Anagoor non c’era.
Neppure sulle guide turistiche, che sono così ricche di particolari, vi si
faceva cenno.
Io dissi: «Che città è questa che sulle carte
geografiche non è segnata?».
Egli rispose: «È una città grande,
ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata perché il nostro
Governo la ignora, o finge di ignorarla.
Essa fa da sé e non obbedisce. Essa
vive per conto suo e neppure i ministri del re possono entrarvi.
Essa non ha
commercio alcuno con altri paesi, prossimi o lontani. Essa è chiusa.
Essa vive
da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia
mai uscito non significa forse che vi si vive felici?».
«Le carte» io insistetti «non registrano
nessuna città di nome Anagoor, ciò fa supporre che sia una delle tante leggende
di questo paese; tutto dipende probabilmente dai miraggi che il riverbero del
deserto crea, nulla di più.»
«Ci conviene partire due ore prima dell’alba»
disse la guida indigena che si chiamava Magalon, come se non avesse udito. «Con
la tua macchina, signore, arriveremo in vista di Anagoor verso mezzodì. Verrò a
prenderti alle tre del mattino, mio signore.»
«Una città come quella che tu dici sarebbe
registrata sulle carte con un doppio cerchio e il nome in tutto stampatello.
Invece non trovo alcun riferimento a una città di nome Anagoor, la quale
evidentemente non esiste. Alle tre sarò pronto, Magalon.»
Coi fari accesi alle tre del mattino si partì
in direzione pressappoco sud sulle piste del deserto e mentre fumavo una
sigaretta dopo l’altra con la speranza di scaldarmi vidi alla mia sinistra
illuminarsi l’orizzonte e subito venne fuori il sole che si mise a battere il
deserto finché fu tutto caldo e tremolante, tanto che si vedevano laghi e
paludi intorno, in cui si riflettevano le rocce con precisione di contorni, ma
di acqua non c’era in verità neanche un secchiello, soltanto sabbia e sassi
incandescenti.
Ma la macchina con estrema buona volontà
correva e alle 11,37 in punto Magalon che mi sedeva al fianco disse:
«Ecco, signore.»
E infatti vidi le mura della città che si
estendevano per chilometri e chilometri, alte dai venti ai trenta metri, di
colore giallastro, ininterrotte, qua e là sovrastate da torrette.
Avvicinandomi, notai che in vari punti,
proprio a ridosso delle mura, c’erano degli accampamenti: tende miserabili,
tende medie, tende da ricchi signori a forma di padiglione, sormontate da
bandiere.
«Chi sono?» io chiesi.
E Magalon spiegò: «Sono coloro che sperano di
entrare e bivaccano dinanzi alle porte».
«Ah, ci sono delle porte?»
«Ce ne sono moltissime, di grandi e di
piccole, forse più di cento, ma è tanto vasto il perimetro della città che tra
l’una e l’altra corre una notevole distanza.»
«E queste porte, quando le aprono?»
«Le porte non vengono aperte quasi mai. Però
si dice che alcune si apriranno. Stasera, o domani, o fra tre mesi, o fra
cinquant’anni, non si sa, è appunto qui il grande segreto della città di
Anagoor.»
Eravamo arrivati.
Ci fermammo dinanzi a una
porta che sembrava di ferro massiccio. Molta gente era là in attesa. Beduini
sparuti, mendicanti, donne velate, monaci, guerrieri armati fino ai denti,
perfino un principe con la sua piccola corte personale. Ogni tanto qualcuno con
una mazza batteva sulla porta, che rintronava.
«Battono» disse la guida «affinché quelli di
Anagoor, udendo i colpi, vengano ad aprire. è infatti generale persuasione che
se non si bussa nessuno mai aprirà.»
Mi venne un dubbio: «Ma è poi sicuro che di
là dalle mura ci sia qualcuno? La città non potrebbe essere ormai estinta?»
Magalon sorrise: «Tutti, la prima volta che
vengono qui hanno il medesimo pensiero. Io stesso sospettavo, un tempo, che
dentro le mura non vivesse più nessuno. Ma c’è la prova del contrario. Certe
sere, in condizioni favorevoli di luce, si possono scorgere i fumi della città
che salgono diritti al cielo, come tanti incensieri. Segno che uomini vivono là
dentro, e accendono fuochi, e fanno da mangiare. E poi c’è un fatto anche più
dimostrativo: tempo fa una delle porte è stata aperta.»
«Quando?»
«La data, per essere sinceri, è incerta.
Alcuni dicono un mese, un mese e mezzo fa, altri però ritengono il fatto molto
più lontano, vecchio di due, tre, perfino quattro anni, qualcuno addirittura lo
attribuisce al tempo che regnava il sultano AhmerEhrgun.»
«E quando regnò AhmerEhrgun?»
«Circa tre secoli fa… Ma tu sei molto
fortunato, mio signore… Guarda. Benché sia mezzodì e l’aria bruci, ecco là dei
fumi.»
Una improvvisa eccitazione, nonostante il
caldo, si era propagata nell’eterogeneo accampamento. Tutti erano usciti dalle
tende ed additavano due tremule spire di grigio fumo elevantisi nell’aria
immota di là dal ciglio delle mura.
Non capivo una parola delle concitate voci
che si accavallavano. Però era evidente l’entusiasmo. Come se quei due poveri
fumi fossero la cosa più meravigliosa del creato e promettessero ai riguardanti
una prossima felicità. Il che mi sembrava esagerato per le seguenti ragioni:
Prima di tutto l’apparizione dei fumi non
significava affatto una maggiore probabilità che quella porta si dovesse aprire
e perciò non vi era motivo sensato di tripudio.
Secondo: tanto schiamazzo, se udito
dall’interno delle mura, come era probabile, avrebbe, se mai, dissuaso quelli
dall’aprire, anziché incoraggiarli.
Terzo: quei fumi, di per sé, non dimostravano
neppure che Anagoor fosse abitata.
Infatti non poteva trattarsi di un casuale
incendio dovuto al sole torrido? Oppure, ipotesi assai più probabile, erano i
fuochi accesi da predoni entrati per qualche pertugio segreto delle mura a
saccheggiare la città morta e disabitata.
«Era molto strano» io pensavo «che
oltre ai fumi, nessun altro sintomo di vita fosse stato notato in Anagoor: né
voci, né musiche, né ululati di cani, né sentinelle o curiosi sul ciglio delle
mura, mai. Stranissimo.» Allora io dissi: «Dimmi, Magalon: quando è stata
aperta la porta che tu dici, quanta gente è riuscita a entrare?».
«Un uomo
solo» disse Magalon.
«E gli altri? Cacciati indietro?»
«Altri non c’erano. Si trattava di una delle
porte più piccole e trascurate dai pellegrini. Quel giorno non c’era nessuno ad
aspettare. Verso sera giunse un viandante che bussò. Egli non sapeva che fosse
la città di Anagoor, non si aspettava, entrando, niente di speciale, chiedeva
solo un rifugio per la notte. Non sapeva niente di niente, era là per puro
caso. Forse solo per questo gli hanno aperto.»
In quanto a me, io ho aspettato
quasi ventiquattro anni, accampato fuori delle mura. Ma la porta non si è
aperta. E adesso me ne torno al mio paese.
I pellegrini dell’attendamento, vedendo i
miei preparativi, scuotono il capo: «Eh, amico, quanta furia!» dicono. «Un
minimo di pazienza, diamine! Tu pretendi troppo dalla vita.»
- Dino
Buzzati -
Buona giornata a tutti. :-)