Era morto l'uomo che amavo e m'ero messa a scrivere un
romanzo che desse senso alla tragedia.
Per scriverlo m'ero esiliata in una stanza al primo piano della mia casa in Toscana ed era stato come infilarsi in un tunnel di cui non si intravede la fine, uno spiraglio di luce.
La stanza era in realtà un corridoio brevissimo, arredato con alcuni scaffali di libri, un tavolino, una sedia, e male illuminato da una mezza finestra che s'apriva su un campo di ulivi.
Al bordo del campo e proprio sotto la mezza finestra, un pero su cui mi cadeva lo sguardo quando alzavo gli occhi in cerca di sole.
Non uscivo di casa neanche per recarmi in giardino o alla piscina, non comunicavo nemmeno con le persone della mia famiglia.
All'alba mi alzavo, sedevo al tavolino, ci restavo fino a notte inoltrata ammucchiando fogli scritti che a volte approvavo e a volte gettavo.
Tutt'al più mi interrompevo per andare giù da mia madre che si estingueva come una candela in un letto, divorata da un invisibile mostro che con identici passi, identici gesti, scendevo le scale che portano al piano terreno, attraversavo il salone col grande orologio che ogni sessanta minuti suonava col rintocco della Westminster bell, ed entravo nella camera dove lei giaceva con adirata rassegnazione: il bel volto sempre più smunto, le belle mani sempre più affilate. «Come stai?» «Male». Parlavamo poco, quasi avessimo paura di dirci quel che pensavamo: «Ora te ne vai anche tu» , «Ora me ne vado anch'io».
Le pause che trascorrevo con lei erano un susseguirsi di movimenti che rubavo all'infermiera e che avevano l'unico scopo di mascherare il nostro silenzio: sollevarla in una posizione meno scomoda, aggiustarle i guanciali, controllare le bombole dell'ossigeno grazie a cui respirava.
Esaurito il cerimoniale, lei bisbigliava una frase: quasi sempre la stessa. «Diventerai cieca su quel libro». Io rispondevo scherzosa che mi sarei messa gli occhiali, posavo un timido bacio sulla fronte d'avorio, riattraversavo il salone, risalivo le scale, e tornavo al mio esilio privo di rapporti col mondo. [...]
Una sera di gelo scesi a controllare le bombole dell'ossigeno, aggiustarle i guanciali, sollevarla in una posizione meno scomoda, e quando lei mosse le labbra non uscì alcun suono: l'invisibile mostro era salito fino alle corde vocali.
Terrorizzata le suggerii la frase diventerai-cieca-su-quel-libro.
Scosse la testa per rispondere no.
Per scriverlo m'ero esiliata in una stanza al primo piano della mia casa in Toscana ed era stato come infilarsi in un tunnel di cui non si intravede la fine, uno spiraglio di luce.
La stanza era in realtà un corridoio brevissimo, arredato con alcuni scaffali di libri, un tavolino, una sedia, e male illuminato da una mezza finestra che s'apriva su un campo di ulivi.
Al bordo del campo e proprio sotto la mezza finestra, un pero su cui mi cadeva lo sguardo quando alzavo gli occhi in cerca di sole.
Non uscivo di casa neanche per recarmi in giardino o alla piscina, non comunicavo nemmeno con le persone della mia famiglia.
All'alba mi alzavo, sedevo al tavolino, ci restavo fino a notte inoltrata ammucchiando fogli scritti che a volte approvavo e a volte gettavo.
Tutt'al più mi interrompevo per andare giù da mia madre che si estingueva come una candela in un letto, divorata da un invisibile mostro che con identici passi, identici gesti, scendevo le scale che portano al piano terreno, attraversavo il salone col grande orologio che ogni sessanta minuti suonava col rintocco della Westminster bell, ed entravo nella camera dove lei giaceva con adirata rassegnazione: il bel volto sempre più smunto, le belle mani sempre più affilate. «Come stai?» «Male». Parlavamo poco, quasi avessimo paura di dirci quel che pensavamo: «Ora te ne vai anche tu» , «Ora me ne vado anch'io».
Le pause che trascorrevo con lei erano un susseguirsi di movimenti che rubavo all'infermiera e che avevano l'unico scopo di mascherare il nostro silenzio: sollevarla in una posizione meno scomoda, aggiustarle i guanciali, controllare le bombole dell'ossigeno grazie a cui respirava.
Esaurito il cerimoniale, lei bisbigliava una frase: quasi sempre la stessa. «Diventerai cieca su quel libro». Io rispondevo scherzosa che mi sarei messa gli occhiali, posavo un timido bacio sulla fronte d'avorio, riattraversavo il salone, risalivo le scale, e tornavo al mio esilio privo di rapporti col mondo. [...]
Una sera di gelo scesi a controllare le bombole dell'ossigeno, aggiustarle i guanciali, sollevarla in una posizione meno scomoda, e quando lei mosse le labbra non uscì alcun suono: l'invisibile mostro era salito fino alle corde vocali.
Terrorizzata le suggerii la frase diventerai-cieca-su-quel-libro.
Scosse la testa per rispondere no.
(...)
- Oriana Fallaci -
tratto dal racconto: "Io e il fantasma di Alekos"
Puoi vivere con un tale per vent'anni e considerarlo un
estraneo.
Puoi passare con un altro venti minuti e portartelo dentro tutta la
vita.
- Oriana Fallaci -
Il dolore è sordo,
il dolore è muto.
Il dolore è
sordomuto.
Sordo perché
ascolta solo se stesso,
muto perché non ci sono parole che possano parlarne.
muto perché non ci sono parole che possano parlarne.