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giovedì 10 marzo 2022

da: La Peste, 1947 - Albert Camus

Il romanzo è ambientato ad Orano, una città algerina, in qualche anno del 1940 e dintorni, dove "nulla poteva far presagire ai nostri concittadini gli incidenti che si verificarono nella primavera di quell’anno e che furono quasi i primi segni della serie di gravi avvenimenti".
Tutto comincia con una moria di topi e con un vecchio portiere che li raccatta stecchiti dall’androne del palazzo. Sarà lui, dodici giorni dopo, il primo ad ammalarsi. Il suo medico visitandolo pensa: "Bisogna isolarlo e tentare una cura d’eccezione". Ma il paziente muore in fretta. Molti seguiranno per quella che all’inizio è una "misteriosa febbre" che si propaga veloce in una città dove tutti, cittadini e medici, sono impreparati. E questo nonostante i flagelli siano "una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa".
Governo e medici isolano i nuovi malati, ma sono attenti a cosa dire perché "l’opinione pubblica è cosa sacra: niente terrore". E la parola peste è dapprima solo nei discorsi a porte chiuse, dove qualcuno ricorda lo strano caso di Canton (città costiera a Sud della Cina) dove "quarantamila topi erano morti di peste prima che il flagello s’interessasse degli abitanti".
Dopo vari ragionamenti e tentennamenti la verità si impone: "Quello che bisognava fare era riconoscere chiaramente quello che doveva essere riconosciuto, cacciare infine le ombre inutili e prendere le misure necessarie. Poi la peste si sarebbe fermata".
Ed allora ecco i reparti dedicati in ospedale e poi un ospedale ausiliario e, con il lievitare incessante di contagi e decessi, l’estrema ratio della chiusura della città. Solo allora: "Si accorsero tutti di essere presi nel medesimo sacco e che bisognava cavarsela".
Ci fu chi si trovò separato dalla famiglia, perché uscito per lavoro non poté rientrare. Chi, arrivato in città per lavoro, non ottenne il permesso di lasciarla: come il nostro ragazzo di Grado, riportato in patria da Wuhan da un aereo militare italiano; come a Rambert, che nel romanzo è un giornalista inviato a seguire il caso, che vive l’epidemia tra il dovere di cronaca e il desiderio di ritornare dalla sua amata. E’ lui uno dei personaggi principali del volume insieme all’eroe della storia, il medico Rieux. Fanno da contorno altre storie: c’è chi cerca di uccidersi ma finisce col dedicarsi al censimento dei casi; chi - come i medici allora come oggi - lavora senza sosta per dare sollievo a chi è catturato dal male; chi come i religiosi decise "di lottare contro la peste coi propri mezzi e organizzando una settimana di preghiere collettive".
Tra i personaggi c’è pure la città stessa che cambia, che perde la sua normalità ("persino il commercio era morto di peste") e assume un volto nuovo, non sempre perfetto, talvolta meschino (come le introvabili pastiglie di menta dalle farmacie "molti le succhiavano per premunirsi da un eventuale contagio"), eppure capace di un’impensabile capacità di consentire la vita con i suoi ristoranti, le persone ancora a passeggio per le strade o nei caffè (dove è pur vero era sparito lo zucchero sfuso e ciascuno doveva portarselo da sé), e perfino con qualche proibito tuffo in mare.
Tanto resta da raccontare e lo lasciamo alle pagine del libro dove il morbo continua a lungo, mordendo la città per dieci mesi. Comincia in aprile, attraversa l’estate, supera uno strano e vuoto Natale, oltrepassa anche Capodanno…-

- Simonetta Venturin -
https://www.ilpopolopordenone.it/Cultura-e-Spettacoli/I-libri-che-raccontano-le-epidemie-1-La-peste-di-Albert-Camus


Se oggi la peste vi guarda, vuol dire che il momento di riflettere è venuto. 
I giusti non possono temere, ma i malvagi hanno ragione di tremare. Nell'immenso granaio dell'universo il flagello implacabile batterà la messe umana sino a che la paglia sia divisa dal grano. Ci sarà più paglia che grano, ci saranno più chiamati che eletti e la sventura non è stata voluta da Dio. Troppo a lungo il mondo è venuto a patti col male, troppo a lungo si è riposato sulla misericordia divina. Bastava il pentimento, tutto era permesso.

E per il pentimento, ciascuno si sentiva forte. Venuto il momento, lo si proverebbe sicuramente. Di qui, la cosa più facile era lasciarsi andare, la misericordia divina avrebbe fatto il resto. Ebbene, questo non poteva durare! Dio, che per tanto tempo ha chinato sugli uomini di questa città il suo volto di pietà, stanco di aspettare, deluso nella sua eterna speranza, ora ne ha distolto lo sguardo. Privi della luce di Dio, eccoci per molto tempo nelle tenebre della peste! [...]

I nostri concittadini non erano più colpevoli d'altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli. [...]

Molti speravano sempre che l'epidemia si sarebbe fermata e che loro, con la famiglia, sarebbero stati risparmiati. Di conseguenza, non si sentivano ancora obbligati a nulla. Per essi la peste non era che una spiacevole visitatrice, che doveva andarsene un giorno, com'era venuta. Spaventati, ma non disperati, non era ancor giunto il momento in cui la peste gli sarebbe apparsa come la forma stessa della loro vita e in cui avrebbero dimenticato l'esistenza che avevano potuto condurre prima del morbo.

 - Albert Camus - 
da: La Peste, 1947. (Italian Edition), Bompiani editore

 

Negavano tranquillamente, contro ogni evidenza, che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana al pari di quella delle mosche, negavano quella barbarie ben definita, quel calcolato delirio, quell’imprigionamento che portava con sé una terribile libertà nei riguardi di tutto quanto non fosse il presente, quell’odore di morte che instupidiva tutti quelli che non uccideva, negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca d’un forno, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.

 - Albert Camus - 
da: La Peste, 1947. (Italian Edition), Bompiani editore


Buona giornata a tutti :-)




lunedì 21 febbraio 2022

da : Albert Camus, La Peste, 1947

Ritrovarsi 

Le porte della città finalmente si aprirono, all’alba di una bella mattina di febbraio, salutate dalla popolazione, dai giornali, dalla radio e dai comunicati della prefettura. Rimane quindi al narratore di farsi il cronista delle ore di esultanza che seguirono l’apertura delle porte, benché lui fosse tra coloro che non avevano la libertà di parteciparvi appieno. Erano previsti grandi festeggiamenti per la giornata e per la sera. Intanto i treni cominciarono a fumare alla stazione, mentre navi provenienti da mari lontani facevano già rotta verso il nostro porto, segnalando a loro modo che per tutti coloro che avevano patito la separazione quello era il giorno del ricongiungimento. Non è difficile immaginare quali furono le conseguenze del senso di separazione che aveva pervaso tanti nostri concittadini. I treni che per tutto il giorno entrarono in città erano altrettanto carichi di quelli che ne uscirono. Nel corso delle due settimane di sospensiva, tutti avevano prenotato un posto per quel giorno, nel timore che all’ultimo momento la prefettura revocasse la decisione. Alcuni viaggiatori che si avvicinavano alla città non erano peraltro immuni da qualche apprensione, poiché se perlopiù conoscevano le sorti di coloro che gli erano vicini, ignoravano tutto degli altri e della città stessa, alla quale attribuivano un volto inquietante. Ma questo valeva soltanto per coloro che in tutto quel tempo non erano stati consumati dalla passione.

Questi ultimi, infatti, erano in preda alla loro idea fissa. Una sola cosa per loro era cambiata: quel tempo che nei mesi dell’esilio avrebbero voluto spingere perché accelerasse, che ancora si ostinavano a incalzare quando erano già in vista della nostra città, vollero invece farlo rallentare e lasciarlo come sospeso appena il treno cominciò a frenare prima di fermarsi. La sensazione che avevano, insieme vaga e acuta, di tutti quei mesi di vita perduti per il loro amore, faceva loro confusamente esigere una specie di risarcimento in cui il tempo della gioia sarebbe dovuto trascorrere due volte meno rapidamente di quello dell’attesa. E coloro che li aspettavano in una camera da letto o alla stazione come Rambert, la cui donna avvisata settimane prima aveva fatto il dovuto per arrivare, provavano la stessa impazienza e lo stesso sgomento. Poiché quell’amore o quell’affetto che i mesi di peste avevano ridotto a un’astrazione, Rambert aspettava, tremando, di misurarlo con la creatura di carne che ne era stato l’oggetto.

Avrebbe desiderato essere di nuovo l’uomo che all’inizio dell’epidemia voleva lanciarsi di corsa fuori dalla città per gettarsi incontro a colei che amava. Ma sapeva che non era più possibile. Era cambiato, la peste gli aveva messo dentro un distacco che con tutte le sue forze cercava di negare e che tuttavia persisteva in lui come una sorda angoscia. Per certi versi aveva la sensazione che la peste fosse finita in maniera troppo brusca, e che lo cogliesse alla sprovvista. La felicità arrivava troppo in fretta, il fatto sorpassava l’attesa. Rambert si rendeva conto che gli sarebbe stato restituito tutto di colpo e che la gioia è una fiammata di cui non si può sentire il sapore.

Camus, La Peste, 1947. Tutti i brani sono stati tratti da: Camus, Albert. La peste (Italian Edition) . Bompiani. Edizione del Kindle


Se oggi la peste vi guarda, vuol dire che il momento di riflettere è venuto. 
I giusti non possono temere, ma i malvagi hanno ragione di tremare. Nell'immenso granaio dell'universo il flagello implacabile batterà la messe umana sino a che la paglia sia divisa dal grano. Ci sarà più paglia che grano, ci saranno più chiamati che eletti e la sventura non è stata voluta da Dio. Troppo a lungo il mondo è venuto a patti col male, troppo a lungo si è riposato sulla misericordia divina. Bastava il pentimento, tutto era permesso.

E per il pentimento, ciascuno si sentiva forte. Venuto il momento, lo si proverebbe sicuramente. Di qui, la cosa più facile era lasciarsi andare, la misericordia divina avrebbe fatto il resto. Ebbene, questo non poteva durare! Dio, che per tanto tempo ha chinato sugli uomini di questa città il suo volto di pietà, stanco di aspettare, deluso nella sua eterna speranza, ora ne ha distolto lo sguardo. Privi della luce di Dio, eccoci per molto tempo nelle tenebre della peste! [...]

I nostri concittadini non erano più colpevoli d'altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli. [...]

Molti speravano sempre che l'epidemia si sarebbe fermata e che loro, con la famiglia, sarebbero stati risparmiati. Di conseguenza, non si sentivano ancora obbligati a nulla. Per essi la peste non era che una spiacevole visitatrice, che doveva andarsene un giorno, com'era venuta. Spaventati, ma non disperati, non era ancor giunto il momento in cui la peste gli sarebbe apparsa come la forma stessa della loro vita e in cui avrebbero dimenticato l'esistenza che avevano potuto condurre prima del morbo.

Camus, La Peste, 1947. Tutti i brani sono stati tratti da: Camus, Albert. La peste (Italian Edition) . Bompiani. Edizione del Kindle


Buona giornata a tuti :-)

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domenica 21 giugno 2020

Canterò senza fine le grazie del Signore - san Luigi Gonzaga S.J. , 21 giugno 2020


Io invoco su di te, mia signora, il dono dello Spirito santo e consolazioni senza fine. Quando mi hanno portato la tua lettera, mi trovano ancora in questa regione di morti. Ma facciamoci animo e puntiamo le nostre aspirazioni verso il cielo, dove loderemo Dio eterno nella terra dei viventi. Per parte mia avrei desiderato di trovarmici da tempo e, sinceramente, speravo di partire per esso già prima d'ora.
La carità consiste, come dice san Paolo, nel «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e nel piangere con quelli che sono nel pianto». 
Perciò, madre illustrissima, devi gioire grandemente perché, per merito tuo, Dio mi indica la vera felicità e mi libera dal timore di perderlo. 
Ti confiderò, o illustrissima signora, che meditando la bontà divina, mare senza fondo e senza confini, la mia mente si smarrisce. 

Non riesco a capacitarmi come il Signore guardi alla mia piccola e breve fatica e mi premi con il riposo eterno e dal cielo mi inviti a quella felicità che io fino ad ora ho cercato con negligenza e offra a me, che assai poche lacrime ho sparso per esso, quel tesoro che è il coronamento di grandi fatiche e pianto.
O illustrissima signora, guardati dall'offendere l'infinita bontà divina, piangendo come morto chi vive al cospetto di Dio e che con la sua intercessione può venire incontro alle tue necessità molto più che in questa vita.
La separazione non sarà lunga. Ci rivedremo in cielo e insieme uniti all'autore della nostra salvezza godremo gioie immortali, lodandolo con tutta la capacità dell'anima e cantando senza fine le sue grazie. 

Egli ci toglie quello che prima ci aveva dato solo per riporlo in un luogo più sicuro e inviolabile e per ornarci di quei beni che noi stessi sceglieremmo.
Ho detto queste cose solo per obbedire al mio ardente desiderio che tu, o illustrissima signora, e tutta la famiglia, consideriate la mia partenza come un evento gioioso. E tu continua ad assistermi con la tua materna benedizione, mentre sono in mare verso il porto di tutte le mie speranze. 
Ho preferito scriverti perché niente mi è rimasto con cui manifestarti in modo più chiaro l'amore ed il rispetto che, come figlio, devo alla mia madre.

Dalla «Lettera alla madre» di san Luigi Gonzaga (Acta SS., giugno, 5, 878)


San Luigi Gonzaga nasce da una stirpe di principi. A 12 anni, a Brescia, ricevette da san Carlo Borromeo la prima comunione. Decise di entrare nella compagnia di Gesù e dovette rinunciare al titolo ed all'eredità, Si dedicò agli umili ed agli ammalati. Nel 1590 una epidemia di peste colpì e seminò morte in tutta Roma.
In 15 mesi muoiono tre Papi uno dopo l’altro (Sisto V, Urbano VII, Gregorio XIV) e migliaia di persone. Contro la strage si batte San Camillo de Lellis con alcuni confratelli, e così fa Luigi Gonzaga, membro della Compagnia di Gesù, fondata pochi decenni prima da Sant' Ignazio di Loyola.
San  Luigi, trovato in strada un appestato in abbandono, se lo carica in spalla, lo porta in ospedale, incaricandosi di curarlo.
Muore pochi giorni dopo, a 23 anni, era il 1591. Nella commovente lettera sopra riportata saluta per l' ultima volta, in questa vita mortale, la madre.
Nel 1726, papa Benedetto XIII lo proclamerà santo. 
Il suo corpo si trova nella chiesa di Sant’Ignazio in Roma, e il capo è custodito invece nella basilica a lui dedicata, in Castiglione delle Stiviere, suo paese natale.



Nel luglio 1590 una grave epidemia di febbre si abbatté su Roma, diffondendosi particolarmente tra i tessitori di velluto che risiedevano nei pressi delle Terme di Diocleziano. A prendersi cura di loro fu San Camillo de Lellis che, ogni giorno, assisteva gli ammalati accompagnato da un asinello carico di cibo e medicine. L’episodio fu raffigurato a metà Settecento dal pittore romano Gregorio Guglielmi: dietro al santo, tra i vari ammalati, si distinguono le aule delle Terme che affacciano oggi su Piazza della Repubblica e su Via Einaudi.



Orazione a San Luigi Gonzaga

1. O caro S. Luigi, che emulaste sulla terra la purezza degli Angeli del Cielo, avendo conservato fino alla morte bella e candida la stola della battesimale innocenza, per quel grande amore che portaste a tutte le virtù, e specialmente a quella che rende i giovani altrettanti angeli in carne, impetrateci da Dio una grande purità di mente, di cuore, di costumi, e la grazia di non perdere giammai la sua preziosa amicizia. Gloria.



2. O caro S. Luigi, che ben conoscendo la necessità dell'obbedienza per conseguire l'eterna salute, avete sempre riconosciuto nella volontà dei vostri superiori quella di Dio, sottoponendovi con gioia e prontezza, fate che anche noi vi imitiamo in sì bella virtù, per goderne i meriti con voi in eterno. Gloria.



3. O caro S. Luigi, che sebbene viveste sulla terra una vita da vero angelo di paradiso, pure avete voluto castigare il vostro corpo colla più austera mortificazione, ottenete a noi che abbiamo macchiato le anime nostre da molti peccati, di vincere le nostre delicatezze e di esercitare le opere di vera e sincera penitenza, col sopportare volentieri gli incomodi e i dispiaceri della vita, onde conseguire quel premio eterno, che Iddio misericordioso concede in paradiso ai veri e sinceri penitenti. Gloria.



Buona giornata a tutti :-)