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sabato 26 dicembre 2020

Discorso di papa Giovanni XXIII ai carcerati di Regina Coeli, 26 dicembre 1958

«Miei cari figlioli e miei cari fratelli, perché siamo nella casa del Padre. Anche se in questi giorni, questa circostanza esprime quanto nella casa del padre ci può essere di diverso e di penoso. Venendo qui da San Pietro mi sono rammentato della prima impressione che io ebbi da ragazzo quando uno dei miei buoni parenti, un giovinotto, era andato a caccia senza licenza: fu preso dai carabinieri e messo dentro. E tenuto dentro per un mese. Che impressione la vista, la prima vista – forse – dei carabinieri, allora! E poi, quel poveretto in prigione! E la fantasia, la piccola fantasia come lavorava! Ma, nel piccolo, come si elaborava anche la preparazione alla visione di questo fenomeno che accade nella vita. In una vita bene ordinata ci sono delle leggi, delle prescrizioni che, naturalmente, hanno una sanzione. E chi ci capita sotto, può essere l'intenzione sua, nel capitarci, non cattiva, ma le deve subire.»
“Siete contenti che sia venuto a trovarvi? Sapevo che mi volevate, e anch’io vi volevo. Per questo, eccomi qui. A dirvi il cuore che ci metto, parlandovi, non ci riuscirei, ma che altro linguaggio volete che vi parli il Papa? Io metto i miei occhi nei vostri occhi: ma no, perché piangete? Siate contenti che io sia qui. Ho messo il mio cuore vicino al vostro. Il Papa è venuto, eccomi a voi. Penso con voi ai vostri bambini che sono la vostra poesia e la vostra tristezza, alle vostre mogli, alle vostre sorelle, alle vostre mamme…”.
Prima di lasciare Regina Coeli il Papa volle essere ritratto in mezzo ai detenuti. 
Mentre si avvia all’uscita della prigione, Papa Giovanni vede un uomo staccarsi dal gruppo dei reclusi raccolti attorno all’altare. 
Quegli lo guarda con occhi arrossati dal pianto e, cadendogli ai piedi, domanda: “Le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me, che sono un grande peccatore?”. 
Roncalli non risponde. Si china sull’uomo, lo solleva, lo abbraccia e lo tiene a lungo stretto a sé.
“E’ stato a questo punto” scrisse Il Messaggero di Roma, il 27 dicembre 1958, “che la manifestazione ha fatto tremare i muri di Regina Coeli. 
Dell’atmosfera tipica del carcere non è rimasto più nulla. Aperti i cancelli a pianterreno, il Papa ha visitato un ‘braccio’ e l’infermeria, fra ali di carcerati usciti dalle celle con i loro vestiti a strisce. Ma l’episodio che più ha colpito il Papa è stato quello che ha appreso una volta varcato il portone del penitenziario. 
Egli ha saputo che trecento detenuti, chiusi nelle celle di rigore perché considerati pericolosi, non hanno potuto vederlo. Ebbene: ha inviato a ciascuno di essi un’immagine con l’assicurazione che non dimenticherà i suoi ‘figli invisibili’. 
Al termine dell’incontro con i detenuti un’ultima raccomandazione: "Scrivete a casa, raccontate alle vostre madri ed alle vostre mogli che il Papa è venuto a trovarvi".
- Papa Giovanni XXIII -
26 dicembre 1958


 

Buona giornata a tutti. :-)

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lunedì 10 dicembre 2018

"Il Dio-saldatore si è incalmato" - Don Marco Pozza

Tutto goffo, pure un attimo rintronato. 
Uno di quelli che, ammaccati dalla miseria marcia, soccombono quasi sotto terra, incuranti di tutto, non curati da tanti, forse sbadati addirittura a se stessi. Uomini-ombra. 
È la notte di Natale, siamo dietro le sbarre di una patria galera del Nord-Est, quello contorto e gentile. 
Un pugno di gente: un prete che annuncia la nascita, tredici uomini - più avanzi d'umano che uomini tutt'interi, "gente avariata" direbbe qualcuno - mezzi assaliti dal sonno; qualche uomo generoso come lampione che illumina la notte. 
Notte santa, notte generosa, notte d'intrepida attesa. 
Notte-con-Dio.
All'oscuro dell'italiano, com'è di tanti che hanno fatto della scarpata-della-strada la loro scuola, si prenota col dito una delle preghiere dei fedeli stampate sul foglietto. 
Sempre le solite, quasi sempre senza vita, sovente insipide e amorfe. 
Che importa? 
Da quand'è nato il mondo, sono sempre gli uomini a fare la differenza: al tempo dei faraoni, al tempo del bullo Erode. 
Salvatore (chissà se si chiama proprio così o se ha imparato a chiamarsi così) legge la seconda delle cinque preghiere. 

Quella dove sta scritto: "Nel mistero del Dio incarnato (...) preghiamo Dio salvatore (Ascoltaci, o Signore)".

Non sempre ciò che si legge corrisponde a ciò che sta scritto: tra lo scritto e il letto di mezzo ci passa la vita: quella che sorprende e acciuffa, che stupisce e smarrisce, vita-sempre-vita. 
Salvatore non legge ciò che c'è scritto, legge ciò che capisce. Di più: legge ciò che gli risuona nel cuore più che quello che altri hanno scritto. 
Legge tutto d'un fiato, come chi prende la rincorsa per fare il salto migliore: "Nel mistero del Dio incalmato (...) preghiamo Dio saldatore (Ascoltaci, o Signore)." 
Alzo gli occhi, anche solo per strappare un sorriso: la loro compostezza scoraggia la mia ilarità. 

Nessuno sorride, forse manco si sono accorti: tutti ignoranti? Oppure Salvatore ha detto ciò che anche loro pensavano per davvero nel cuore.

Il Dio incalmato, non il Dio incarnato. Eggià: l'incarnazione è roba troppo astratta, odora di teologia e di frasi spurie, non trattiene l'odore consunto della terra, la voracità inimmaginabile del "Dio si è fatto carne" (liturgia della II^ domenica del tempo di Natale). 
L'incarnazione è dogmatica, troppa lontananza per i poveracci, ancora lungi dal loro essere terra-terra. 
Per loro dire che Dio si è incarnato non dice nulla: che Dio si sia incalmato, invece, è tutto un programma, il più ardito dei tentativi mai accaduti. Incalmare è verbo di botanica, sudicio di letame, gergo contadino: è inserire il ramo di una pianta su un'altra pianta di diversa varietà, per ottenere un individuo nuovo. 

È un tentativo di miglioria, un trucco da esperti, un tocco di finezza botanica. Il Natale? La divinità s'incalma con l'umanità, Dio s'innesta nell'uomo, l'Onnipotente s'incastra nell'impotenza.

Mai trovata una traduzione più fedele di questa. Senti che tocco: "Dio si è incalmato e venne ad abitare in mezzo a noi" Mica finito, però. 
Era forse preoccupato, Salvatore, che qualcuno non s'intendesse di botanica e, perciò, rischiasse di non capire cos'è il Natale. 
Così, sfacciatamente geniale, ha firmato la seconda manovra da fuoriclasse: "Preghiamo Dio saldatore". Saldatore! La salvezza è una saldatura, congiungere due o più cose insieme in modo da formarne una sola. 

Il Natale è la saldatura di Dio: il Cielo si stringe alla terra, Dio s'aggroviglia in un abbraccio con l'uomo, il suo sogno diventa segno per tutti: "Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia" (Lc 2,12). Dio è il saldatore, il Bambino è la saldatura: la terra è saldata, anche salvata. L'aggancio è riuscito: Dio, incalmandosi, ha saldato la terra col Cielo.

Due giorni dopo Natale, Salvatore Tremiterra, poco oltre i quarant'anni, è morto: un infarto l'ha colto improvviso dentro la sua cella di galera. 
Un pover'uomo in mezzo ad una ciurma di poveri-cristi. 
Stamattina ho celebrato il suo funerale: il funerale di Salvatore, il mio-piccolo-salvatore. L'uomo sbagliato che ha salvato il mio Natale giusto dal rischio dell'astrazione: il Dio-saldatore si è incalmato. 
Solo ai poveri Dio concede il lusso di dargli così sfacciatamente del tu senza renderlo banale.
Grazie, Salvatore.

- Don Marco Pozza -
(Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) 2 gennaio 2016





L'amore è come un albero: 
spunta da sé, 
getta profondamente le radici 
in tutto il nostro essere, 

e continua a verdeggiare
anche sopra un cuore in rovina.

- Victor Hugo -


Buona giornata a tutti. :-)