La tradizione ortodossa riconduce ad alcune
fasi il processo verso la morte.
Le persone di fronte al morente sono chiamate
sempre più ad “accompagnarle."
Verso un nuovo ministero?
Per gli osservatori
del nostro tempo la secolarizzazione, dopo aver tolto la speranza in una vita
oltre la morte, sta affondando sia la tensione verso gli esseri che verranno
dopo di noi sia il rispetto della vita e della morte.
Per lo psichiatra Vittorino Andreoli la morte
è ridotta ormai a malattia di cui individuare una causa patologica, con la
perdita della sua dimensione di evento misterioso e ineluttabile, traguardo che
sancisce un limite invalicabile all’uomo e alla sua volontà di
onnipotenza.
Si muore spesso «senza dignità, lontano da
luoghi all’altezza della sacralità del trapasso. La morte come patologia
ha eliminato il campo della meditatio mortis, del limite della vita».
In un interessante volume, "L’ultimo
istante: morire nella tenerezza", C. Jomain si domanda in modo
provocatorio: “Che fare dei morenti?”.
A suo avviso, le possibili soluzioni
sono tre: la prima è “sopprimere la morte” dalla nostra visuale. Se questo si
rivela impossibile, la seconda ipotesi è quella di “sopprimere i morenti”: è la
scelta dell’eutanasia. Ma vi è anche una terza strada: quella di “accompagnare”
i morenti in modo che possano vivere la morte come un momento di crescita umana
e spirituale.
L’accompagnatore alla morte: un nuovo
“ministero”?
Nell’attuale società tecnologicamente così avanzata, si muore
sempre più soli. La solitudine inevitabile degli ultimi istanti viene aggravata
spesso dalle insufficienze organizzative degli ospedali. Per questo trasformare
l’ospedale in un ambiente il più umano possibile è un compito urgente. Serve il
decentramento in strutture più snelle, quali, ad esempio, gli hospices che
accolgono i malati terminali, per i quali viene garantita un’assistenza
continua.
Investire nell’accompagnamento dei malati
senza speranza di guarigione significa, infatti, mettersi dalla parte del
morente, non lasciandolo solo nel percorso che lo conduce alla morte. Se,
attuato in maniera appropriata, il camminare insieme con il malato grave
diventa segno della presenza di Dio che, come buon pastore, precede, guida,
conduce ad acque tranquille e assicura la sua presenza anche quando il sentiero
scende in una valle oscura.
Se, a livello tecnico, è senz’altro indispensabile
preparare adeguatamente il personale medico e paramedico, così che possa
esprimere meglio le proprie competenze invece di esserne frustrato, a livello
relazionale l’accompagnamento del morente è davvero un compito difficile. A chi
lo compie è chiesto non solo un sapere. Infatti, la paura che afferra il malato
nelle profondità del suo attaccamento alla vita contagia facilmente quanti
l’assistono. Spesso, quindi, è difficile instaurare un dialogo ma,
rifiutandolo, il malato viene come abbandonato a sé. E, d’altra parte, se la
morte è occultata e il singolo se ne rende ben conto, fingerà di non sapere per
non essere abbandonato.
Ci sono autori che parlano di maschere e di rituali
adottati dagli operatori e dai familiari che intendono tenere a distanza il
malato, a scopo protettivo. Ad esempio, il medico e gli infermieri si rifugiano
nella tecnica, il prete nel rito, il familiare nelle chiacchiere che di fatto
rimuovono il problema…
Il malato si trova così ancora più solo, non spera più
nei medici, ma non dimentica la malattia, ha paura dell’ignoto e di perdere la
propria dignità.
La dottoressa Kübler-Ross ha dato un grande
contributo a tutti coloro che si occupano dell’assistenza ai malati terminali,
insegnando quanto sia grande il loro bisogno di parlare della propria
condizione con qualcuno disposto ad ascoltarli.
Vogliamo riprendere le cinque
fasi del morire che la studiosa indica. Tale percorso metodologico consente di
individuare i sentimenti che un malato terminale può esprimere durante la fase
che sta vivendo.
Le fasi del morire
La prima fase di chi sa di dover morire è il
rifiuto, l’incredulità di fronte alla diagnosi.
Segue la rivolta, cioè la proiezione di
sentimenti di collera nei confronti di altri, siano essi parenti, medici o Dio
stesso.
Si giunge poi al patteggiamento, cioè ad una sorta di compromesso
durante il quale il malato si impegna a dare qualcosa in cambio di un
prolungamento di vita; ad esempio, ci si dedica a nobili cause in cambio di un
po’ di tempo in più da vivere, oppure per lo stesso motivo si offre il proprio
corpo alla scienza medica per terapie, farmaci nuovi…
La quarta tappa è quella della depressione:
il malato è costretto ad accettare la prospettiva della morte, ma non è capace
di risolvere i suoi problemi esistenziali.
Esiste una depressione reattiva, come
reazione alla morte prossima e al cambiamento del fisico; e una depressione
preparatoria, nella quale il malato terminale si prepara a vivere la morte.
Si arriva così all’accettazione; il malato
abbandona la lotta, si affida ed è pronto per il distacco.
In questa prospettiva è più facile chiedersi
se il malato sia in grado di accettare la morte piuttosto che domandarsi se noi
siamo in grado di avere una relazione con qualcuno che sa di dover morire.
È ormai accertato che il malato terminale
sente profondamente l’esigenza di non morire da solo e di essere invece seguito
da qualcuno che sappia capire i suoi gesti, i suoi silenzi; in altre parole,
qualcuno disponibile nei suoi confronti che, con poche parole e pochi atti,
riesca a dargli la sensazione di non morire abbandonato.
Jean-Yves Leloup, prete ortodosso, propone un
percorso molto interessante di riconciliazione con quell’istante cruciale che è
l’addio alla vita. Collaborando con la psicanalista Marie de Hennezel e
attingendo alle antiche filosofie e alle grandi religioni d’Occidente e
d’Oriente, egli suggerisce di reinventare dei rituali per il lutto, come pure
dei riti per entrare da vivi nella propria morte. Leloup si rifà in particolare
alla tradizione ortodossa, in cui la morte viene chiamata “dormizione”.
Il termine requiem indica esattamente
l’accompagnare qualcuno nei suoi ultimi istanti per entrare nel suo “riposo”,
addormentandosi nel “senso”: cioè in un atteggiamento che gli permetta di
lasciare la “tenda” del suo corpo mortale senza rimorsi, senza rimpianti - e,
possibilmente, senza sofferenza -, per fare “un passo in più”.
- Luigi Guglielmoni e Fausto Negri -
da: Settimana, 42/2010, 11
Le fasi dell’accompagnare alla morte.
Si
ripercorrono qui di seguito le sette tappe proposte, esplicitandone brevemente
le caratteristiche principali:
1. La prima tappa è la compassione. Chi
accompagna deve, prima di tutto, prepararsi interiormente, per avere
un’apertura del cuore che lo renderà capace di ascoltare le angosce dell’altro.
La sua dev’essere una sorta di connivenza con l’ignoto, acquisendo
quell’interiorità che lo renda più colmo d’amore.
2. Poiché questa “qualità” si trova al di là
delle proprie competenze, il secondo passo è quello dell’invocazione di un
Nome, cioè di quella presenza che è familiare nella propria tradizione
religiosa, quale che sia. Questa invocazione ha grande importanza perché si
diventa ciò che si ama, come si diventa ciò che si invoca. Si può così compiere
una “trasfusione di serenità e di pace”.
3. Dopo la compassione e l’invocazione, viene
il gesto importantissimo dell’unzione. La persona viene toccata con olio
consacrato, simbolo della luce e della tenerezza. Anticamente con l’olio
profumato si consacravano re, sacerdoti e profeti. Questa unzione, che deve
essere accompagnata da una parola, passa dalla fronte, dal collo, dal cuore,
dal ventre, dalle ginocchia, dai piedi… Essa intende “riaprire” quei luoghi
forse chiusi o bloccati dalla paura e dall’ansia. Lo scopo è quello di invocare
la presenza del “soffio di Dio” su tutte le parti che costituiscono i centri
vitali, così che il corpo sia realmente considerato non un oggetto ma un tempio
dello Spirito.
4. L’ulteriore tappa è quella dell’ascolto.
Ora il morente può parlare - evidente quando non è in coma -, rivelando l’intimo
di sé, nel bene e nel male. È importante, a questo punto, l’atteggiamento di
chi ascolta: è indispensabile che l’accompagnatore non si ponga in un
atteggiamento di giudizio.
5. È opportuno che l’ascolto sia seguito da
un silenzio interiormente condiviso, così come è altrettanto importante che sia
data una “risposta” vera, perché in molti casi il silenzio non basta. Chi
accompagna può cercare di trasmettere qualche frase di consolazione, di
conferma affettiva, di perdono, di benedizione (da benedicere, dire bene, dire
una parola buona… come la seguente affermazione biblica: «Se il tuo cuore ti
condanna, Dio è più grande del tuo cuore.»)
6. La parola di benedizione e di perdono
autorizza a partire: «Va’ in pace». Per compiere quest’ultima parte del
cammino, occorre un nutrimento per la traversata. È la tappa della comunione o
eucaristia. Questo sacramento utilizza le materie nutritive della vita
quotidiana allo scopo di simboleggiare l’azione e la contemplazione di Cristo e
della sua vita, alla quale è dato di partecipare. Si tratta di gesti semplici e
di umili cose (come il pane e il vino), perché quanto c’è di più sacro è spesso
quanto esiste di più semplice.
7. Si arriva così all’ultima tappa del
rituale, quella della contemplazione. Colui che sta per morire e
l’accompagnatore si trovano ora di fronte al mistero. Davanti a ciò che sta per
accadere, i due sono muti. Scrive padre Leloup: «La porta che dà sul giardino è
aperta, ma resta ancora da dire: “Va’… Va’… Io rimango ma vedo il chiarore
attraverso la finestra… Siamo tutti e due immersi nella stessa luce». In questa
fase finale, può essere opportuno un canto o una musica: meglio se sacra,
perché questa si sintonizza più facilmente sulla frequenza più interiore.
4 Questo percorso fa parte specificatamente
della tradizione ortodossa: le tappe sono altrettanti doni dello Spirito Santo.
Rileggendole, si vede quanto il rito cattolico non sia di per sé lontano da
queste indicazioni, ma emerge altresì quanto sia distante la nostra prassi da
queste semplici proposte. Si comprende, d’altra parte, come il tempo del morire
possa diventare il momento più alto della vita.
È anche evidente come
l’accompagnamento di un familiare, di un diacono o di un prete, possa diventare
un vero e proprio ministero all’interno della comunità cristiana.
L’auspicio è
che in futuro nessuno sia privato dell’occasione di vivere intensamente il
passaggio verso la luce.
da: Settimana, 42/2010, 11
“Nonostante la morte sia spesso un tema quasi
proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla
nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi. E
davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci
inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche
orizzonte, che offra ancora un futuro.
La strada della morte, in realtà, è una via
della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte
sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità. Solamente
chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può anche vivere una vita
a partire dalla speranza.
Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla
sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa
vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza
per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile, trova il suo
senso più profondo, solamente se c’è Dio”.
- Papa Benedetto XVI -
Udienza generale,
2 novembre 2011
Buona giornata a tutti. :-)
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