sabato 9 dicembre 2017

Litanie delle paure, della speranza, dell'impegno - + don Tonino Bello, Vescovo

litanie delle paure

[…] Paura del proprio simile. 
Paura del vicino di casa. 
Paura di chi mette in discussione i nostri consolidati sistemi di tranquillità, se non di egemonia. 
Paura dello zingaro. 
Paura dei terzomondiali. […] 
Paura di uscire di casa. 
Paura della violenza. 
Paura della guerra. […] 
Paura di non farcela. 
Paura di non essere accettati. 
Paura di non essere più capaci di uscire da certi pantani nei quali ci siamo infognati. 
Paura che sia inutile impegnarsi. 
Paura che, tanto, il mondo non possiamo cambiarlo noi. 
Paura che ormai i giochi sian fatti… Quante paure!




litanie delle speranze e dell’impegno

Ebbene di fronte a questo quadro così allucinante di paure umane, che cosa ci dice oggi il Signore? […] Rivolge a ciascuno di noi la stessa esortazione che l’angelo rivolse alla Vergine dell’Avvento e dell’Attesa. «Non temere, Maria». 
Non aver paura, Chiesa. 
Vedete: paura ha la stessa radice di pavimento. 
Viene dal latino «pavére». «Pavere» significa battere il terreno per livellarlo. Anche terrore ha la stessa radice di terra. 
Paura, quindi, è la conseguenza dell’essere battuto, appiattito, livellato, calpestato. 
Ora, che cosa mi dice il Signore di fronte a queste paure: rimani lì steso sul pavimento? Rimani appiattito atterrato? No! Mi dice la stessa cosa che ha detto a Maria: «non temere». 
E adopera due verbi bellissimi: alzatevi e levate il capo. 
Sono i due verbi dell’Avvento. Sono le due luci che ci devono accompagnare nel cammino che porta al Natale. 
Alzarsi significa credere che il Signore è venuto sulla terra duemila anni fa, proprio per aiutarci a vincere la rassegnazione. 
Alzarsi significa riconoscere che se le nostre braccia si sono fatte troppo corte per abbracciare tutta intera la speranza del mondo, il Signore ci presta le sue. 
Alzarsi significa abbandonare il pavimento della cattiveria, della violenza, dell’ambiguità, perché il peccato invecchia la terra. 
Alzarsi significa, insomma, allargare lo spessore della propria fede. 
Ma alzarsi significa anche  allargare lo spessore della speranza, puntando lo sguardo verso il futuro, da dove Egli un giorno verrà nella gloria per portare a compimento la sua opera di salvezza. 
E allora non ci sarà più pianto, né lutto, e tutte le lacrime saranno asciugate sul volto degli uomini. 
levare il capo che cosa significa? 
Fare un colpo di testa. Reagire. Muoversi. 
Essere convinti che il Signore viene ogni giorno, ogni momento nel qui e nell’ora della storia, [e] viene come ospite velato. E, quindi, saperlo riconoscere nei poveri, negli ultimi, nei sofferenti. 
Significa in definitiva: allargare lo spessore della carità. 
Ecco il senso di questo Avvento di solidarietà, ben espresso dall’augurio fortissimo che S. Paolo ci ha formulato nella seconda lettura «il Signore vi faccia crescere nell’amore vicendevole e verso tutti».

Verso tutti. Senza esclusione di nessuno.

[…] accanto ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti, ai malati cronici, agli handicappati, agli anziani, ai malati terminali, ai dimessi dal carcere e dai manicomi… per condividerne tempo, gioie e speranze. […] accanto agli immigrati, ai migranti, ai terzomondiali, non soltanto dando loro un letto e la buona notte, ma incalzando soprattutto le pubbliche istituzioni perché i provvedimenti di legge siano meno disumani delle norme vigenti. […]

Vissuto così, l’Avvento non sarà il contenitore delle nostre paure, ma l’ostensorio delle nostre speranze.

+ don Tonino Bello, Vescovo 
[Antologia degli Scritti, Vol. 2, pagg. 177-183]



[…] Ogni momento il Signore compare come ospite velato. Avete ascoltato – dice Elia – il Signore è venuto ma non lo hanno riconosciuto. Il problema è del «riconoscimento». 
Per noi conoscere Gesù non è poi tanto difficile: lo conosciamo nella Liturgia, nella Bibbia, negli studi di Teologia, nelle nostre meditazioni, nel Tabernacolo; conosciamo il suo pensiero, la sua parola, la sua opera. 
Il problema è «riconoscere» che è molto più difficile di conoscere, perché bisogna sempre togliere il muro d’ombra, dice Ungaretti nella sua poesia «la Madre». 
Il nostro corpo è come il muro d’ombra, quando il cuore si fermerà, cadrà il muro d’ombra e davanti al Signore comparirà l’essere profondo della nostra persona.[…]

Sarebbe un guaio se non riconoscessimo il Signore che viene.

Se saremo sul passo degli ultimi, se cadenzeremo il nostro passo con gli ultimi, ci sarà più facile attardarci con gli ultimi; mentre si cammina insieme, aiutando coloro che viaggiano con noi, si ha anche la possibilità di dire: «Sei tu Signore che compari sotto la specie dell’uomo, sacramento di Te, sotto le specie consacrate che sono costituite dal corpo e dal sangue del nostro fratello».

Ed è una chiamata che erompe oggi dal cuore della storia… 

+ don Tonino Bello, Vescovo 
[Antologia degli Scritti, Vol. 2, pagg. 177-183]




in principio è la paura

[…] La catastrofe non è soltanto l’evento ultimo e conclusivo, è un processo. Va letta come un processo che investe le cose e le distrugge come una alluvione segreta che porta morte. E’ un fatto che va constatato, non sfuggendo all’evidenza creandoci piccole isole di sicurezza, come durante una alluvione, mentre l’acqua sale, si sta tutti addossati nell’ultimo isolotto rimasto indenne dall’acqua. L’acqua arriva anche lì. Tutto sommergerà se noi ci affidiamo alla falsa solidità delle cose acquisite. Il «principio di morte» – direbbero gli psicanalisti – entra e prevale.

Allora, una volta che noi ci troviamo – come dice il Signore – a dover vivere con vigilanza, cosa dobbiamo fare? Io credo che il nostro primo dovere sia di non fingere falsa sicurezza, ma di farci invadere dalla paura per ciò che essa ha di giusto e di razionale: sentirla dentro di noi. E c’è un modo, che appartiene all’antica pedagogica cristiana, anzi, oso dire, umanistica, ma che è stato un po’ abbandonato. Cioè: noi abbiamo tutti, nel nostro essere personale, il modo di verifica della catastrofe: ed è la nostra morte. La morte non è solo un evento biologico di cui naturalmente abbiamo paura, ma è un evento cosmico, perché il mondo acquista senso, per ciascuno di noi, nel suo angolo di vita personale; e per quanto accettiamo le spiegazioni oggettive e collettive, guai a noi se stacchiamo l’ancora dalla profondità del nostro essere: allora ci alieniamo, passiamo tutta la vita a parlare con categorie universali e rimaniamo lontani da noi stessi. Ma la paura verrà all’improvviso.

Questo è ciò che dice il Signore quando parla del «cuore appesantito dalle dissipazioni» C’è una dissipazione di tipo intellettuale, anche. Ed è la dissipazione di tipo intellettuale quella che ci porta sempre a mettere tra parentesi «la catastrofe» che ci riguarda. […]

La fede ci dà la possibilità di un altro discorso. Il Signore allude a questa posizione là dove dice: «Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» […] di là di quei processi catastrofici non c’è il vuoto, la cifra senza spiegazione: per noi c’è l’alleanza. C’è l’impegno dall’altra parte. Il nostro è il Dio della Promessa. […] E allora, se c’è questa promessa che si è attuata nel figlio dell’uomo, il mio atteggiamento non è più di paura invincibile, perché per quanto passino il cielo e la terra, c’è qualcosa che non passa: appunto la Parola che la fede schiude dentro come un fiore sempre vivo.

C’è un modo – per così dire – di vivere dentro la tragedia della fine e insieme di scontarla in noi. Viverla senza finzione e insieme superarla in attesa di cose nuove che devono venire. Se la nostra consuetudine con la Parola di Dio non è occasionale ma strutturale, è una specie di ritmo interno che si intreccia col battito del cuore, queste cose noi le vediamo nascere.

E allora la nostra scelta di fede sarà non quella di piangere sulle catastrofi ma quella di allearci con le cose nuove in cui traluce l’adempimento della Promessa di Dio. […] perché Egli è Colui che viene. Il giorno del Signore viene, non appartiene al nostro calendario passato, è una dimensione del futuro che irrompe, appunto è un adventus, è qualcosa che viene verso di noi. Allora la fede consiste nel discernimento di questo processo antitetico al successo della catastrofe che è processo di vita. Consiste nell’allearsi ai nuovi segni di vita.

Prima di essere una morale, la fede è discernimento, è un saper cogliere la realtà che nasce, è un passo verso ciò che nasce e cresce. Questo è il modo di incontrare Dio. […] E quando la nostra vita si è legata, con questo nesso indissolubile, al processo del Dio che viene, allora siamo liberi dalla paura.

Infatti, che cosa può avvenire poi? Cosa può avvenire che spezzi questa certezza? Niente può avvenire! 
All’interno di una vera comunità cristiana non c’è la paura di esser incompresi, perseguitati, vittime della storia. […] 
Non staremo a piangere sul mondo che ci perseguita: staremo qui ad allevare il germoglio che è nato; ad esser pronti – in qualunque parte del pianeta  – a scommettere che per la promessa di Dio, adempiuta in Cristo, la morte sarà vinta. 
E questa certezza va pagata quotidianamente, non spesa nelle orazioni domenicali: va scontata giorno per giorno nelle scelte.

padre Ernesto Balducci 
[Il mandorlo e il fuoco, Avvento, 1a domenica] 


Buona giornata a tutti. :-)