È noto a tutti che san Carlo Borromeo è stato un uomo di grande preghiera. Carlo Bascapè, il suo biografo più famoso, che fu anche testimone oculare della sua vita, scrisse in Vita e opere di Carlo, Arcivescovo di Milano e cardinale di S. Parassede (1592): «Fu molto assiduo nella preghiera e nella contemplazione delle cose celesti. Quando meditava, soleva concentrarsi con la mente e il cuore e, se ne aveva il tempo, tanto s’immergeva nel profondo delle verità spirituali che, pur così incredibilmente occupato, si mostrava del tutto astratto da ogni cosa». Presso i contemporanei il raccoglimento di quest’uomo lasciò dunque una profonda impressione.
E il Bascapè continua: «Poiché di
giorno era occupato dagli affari, pregava durante la notte; e quando erano in corso
questioni di particolare importanza, trascorreva in orazione notti intere. Per
questo esercizio di pietà si era preparato un luogo vicino alla sua camera, e
non così isolato che qualcuno dei famigliari non sentisse spesso i gemiti delle
sue preghiere».
Questo luogo isolato, un piccolo
oratorio, esiste ancora nel Palazzo arcivescovile di Milano, e non lo si può
visitare senza provare una grande emozione, pensando alle lunghe preghiere
diurne e notturne di San Carlo in quel luogo.
Altri uomini e donne famosi dell’epoca
di San Carlo furono di grande orazione, e ci hanno lasciato memorie
autobiografiche della loro vita interiore, talora di livello altissimo. Basta
pensare, per esempio, alla autobiografia di santa Teresa d’Avila.
Il Libro della sua vita terminato nel
1565 – lo stesso anno in cui san Carlo entrava in Milano – è il racconto ancora
oggi vivissimo, scritto in prima persona in uno stile davvero inimitabile,
delle grazie di orazione di santa Teresa. La prima edizione a stampa di questo
libro è del 1588, quattro anni dopo la morte di san Carlo, tuttavia nel
Cinquecento era pienamente affermato l’uso di scrivere un proprio diario
spirituale autobiografico, nella linea già iniziata dal grande sant’Agostino
con le Confessioni.
Insieme all’illustre esempio di santa
Teresa se ne potrebbero citare altri.
Ne ricordo uno che non poteva non
essere in qualche modo noto anche al Borromeo. È la breve autobiografia di
sant’Ignazio di Loyola, detta anche Il racconto del pellegrino. Sant’Ignazio lo
scrisse o, meglio, dettò al proprio segretario tra il 1553 e il 1555. Vi è
compreso un breve racconto della sua vita, dall’episodio famoso di Pamplona
(1521) all’anno del suo arrivo a Roma (1538). La prima edizione a stampa di
quest’opera anche stavolta è di molto posteriore, ma fin dalle origini ne
circolavano numerose copie manoscritte, e san Carlo – che fin dal primo
soggiorno a Roma fu molto intimo dei Gesuiti – certamente potè conoscere questo
scritto.
Un altro diario, un vero e proprio
giornale spirituale, tenuto da Ignazio di Loyola tra il 2 febbraio 1544 e il 27
febbraio 1545, è conservato in due quadernetti, dove il Santo annotava ogni
giorno l’argomento delle proprie meditazioni, le grazie ricevute nella
meditazione o nella messa, le emozioni interiori, le difficoltà dell’orazione,
le lacrime, e qua e là anche episodi della vita quotidiana (come una volta che
qualcuno correndo per le scale lo aveva disturbato). È un diario
interessantissimo, uno specchio giorno per giorno di questo Santo di poco
anteriore al Borromeo. E, anzi, questi due quadernetti probabilmente
rappresentano quanto resta di un diario molto più ampio, durato lunghi anni.
- Carlo Maria Martini -
Anche allora, dunque, c’era l’uso di
tenere un diario spirituale. E io mi sono chiesto spesso in questi anni:
possibile che non esista un diario spirituale di san Carlo Borromeo, dove egli
annotò giorno dopo giorno le sue meditazioni, le sue preghiere, l’oggetto dei
suoi desideri, ciò che nell’intimo lo commuoveva? Possibile che non esista una
specie di itinerario spirituale, scritto di suo pugno o almeno dettato a
qualche contemporaneo?
A prima vista sembrerebbe impossibile
che tra l’immensa quantità di manoscritti risalenti a san Carlo Borromeo, o
direttamente, e cioè autografi, oppure dettati o scritti da segretari, o copie
di cose da lui firmate – quantità ancora oggi inesplorata (si parla di circa
60.000 lettere soltanto per la corrispondenza) –, non sia ancora emerso qualche
frammento di diario spirituale o di note di orazioni.
Non è escluso che tra i fondi
esistenti , magari proprio in questi anni, salti fuori qualcosa. Però la
lettura delle prime pagine della citata biografia del Bascapè, suo intimo
collaboratore, non lascia molte speranze al proposito, perché vi leggiamo: «Da
quando infatti mi sono posto alla scuola di Carlo, come di un ottimo padre,
osservando con animo quasi presago ciò che egli faceva di giorno in giorno, ho
diligentemente conservato quanto, presto o tardi, mi sarebbe stato utile per un
incarico di tal genere, dovuto alla mia dimestichezza con lui». Per nostra
fortuna, dunque, il biografo contemporaneo aveva già raccolto note giorno per
giorno. Il Bascapè afferma poi di aver consultato, per stendere la biografia,
più di 30.000 lettere. E aggiunge: «Se accanto a questi documenti esterni,
potessimo conoscere ciò che, volendo nascondere la propria virtù, probabilmente
Carlo non rese noto ad alcuno, avremmo senza dubbio un materiale più abbondante
perché le anime pie lodino la divina bontà».
Queste frasi si leggono nelle prime
pagine della Vita di Carlo e provano con certezza che l’autore della biografia
non conosceva alcun diario spirituale o appunti di orazione di San Carlo
Borromeo, e anche che egli riteneva verosimile che il Santo non avesse
appositamente voluto lasciare niente di simile.
Si fa avanti allora un’altra domanda:
dobbiamo dunque rassegnarci a una ignoranza assoluta su questo punto? Dobbiamo
rassegnarci a ritenere che le lunghissime ore di preghiera di san Carlo, le
lunghe adorazioni al Crocifisso, le notti passate a venerare la memoria della
Passione nella chiesa del Santo Sepolcro a Milano, le giornate dei suoi
esercizi spirituali a Varallo e altrove siano e rimangano un segreto che
conosceremo solo nella vita eterna?
Dopo lunghe riflessioni io penso che
esista una via mediante la quale ci è giunto qualcosa di tale segreto, e che
san Carlo ci inviti a ripercorrere questa via proprio nel suo quarto
centenario. Vorrei perciò invitarvi a percorrere con me almeno un tratto di
questo cammino, per cercare se è possibile una metodologia che ci serva a
ricostruire alcuni frammenti di una autobiografia spirituale di Carlo Borromeo.
Vi propongo un itinerario, la cui
prima tappa prende in considerazione la scuola di orazione, di preghiera e di
meditazione, a cui san Carlo si è assoggettato a partire dal 1563 – quando
venne ordinato sacerdote, il 17 luglio, nella chiesa di san Pietro in Montorio
a Roma. Celebrò la sua prima messa il 15 agosto di quell’anno. Già da tre anni
era arcivescovo di Milano, o meglio suo amministratore apostolico, senza essere
né diacono né prete. Difatti, a Milano, si diede la notizia il 15 agosto 1563
dicendo: «Il nostro arcivescovo ha detto la prima messa», e fu una grande gioia
per il popolo.
San Carlo decise di passare il periodo
tra il 17 luglio e il 15 agosto in esercizi spirituali. Già prima aveva avuto
forti desideri di conversione, ma si può datare ad allora l’inizio della sua
scuola di preghiera, di quella profonda disciplina interiore che lo rese capace
di pregare intensamente e a lungo.
Fece dunque un intero mese di esercizi
per prepararsi alla prima messa; lo fece sotto la direzione di un gesuita, il
padre Ribera, seguendo il libretto degli Esercizi di sant’Ignazio, che era
ormai pubblico dal 1548, quando un Breve di Paolo III ne aveva raccomandato
l’utilità per il popolo cristiano. Possiamo quindi pensare che in quel mese di
preghiera egli abbia avuto possibilità di assimilare il metodo e i contenuti di
questo modo di pregare.
Come si sa, anche in seguito Carlo
Borromeo rimase fedelissimo a questa pratica e a questo metodo. I biografi
riferiscono che soleva fare gli esercizi spirituali due volte l’anno, per
parecchi giorni di seguito. Gli ultimi esercizi della sua vita, per esempio, li
fece al Sacro Monte di Varallo (e per questo il papa ha compreso Varallo nelle
tappe del suo pellegrinaggio). Li cominciò il 15 ottobre, e – a quanto risulta
– li aveva preventivati di quindici giorni. Due esercizi spirituali all’anno,
per molti giorni di seguito.
Conosciamo alcuni luoghi dei suoi
esercizi spirituali, come qualche eremo camaldolese, il Sacro Monte di Varallo,
a Milano san Barnaba (andava volentieri dai preti fondati da sant’Antonio Maria
Zaccaria) e altri luoghi ancora, ad esempio il noviziato dei Gesuiti di Arona,
un’altra casa di religiosi. In queste case si ritirava volentieri per i due
esercizi annuali, ma qualche volta invece, li faceva in barca, perché gli
piaceva molto viaggiare così e, in quella calma, poteva anche fare gli
esercizi. Oppure alternava barca e lettiga, proprio per poter pregare con
tranquillità.
Conosciamo anche i nomi di alcuni dei
suoi direttori, che dopo padre Rivera furono ordinariamente dei Padri Gesuiti.
Tra le lettere conservate, alcune sono appunto dirette ai Padri provinciali
della Compagnia per chiedere che l’uno o l’altro venisse a dirigere i suoi
esercizi spirituali. Fra i più famosi il padre Venturini e il padre Adorno, di
nobile famiglia genovese, che gli fu molto vicino e lo assistette anche negli
ultimi esercizi di Varallo fino alla morte. Nella minuta di una lettera al
Padre provinciale dei Gesuiti di Venezia, ad esempio, scrive: «Avrei qualche
inclinazione di portare con me il padre Antonio di Nuvolara nel viaggio che sto
per fare a Roma, in barca ovvero in lettiga per valermi dell’opera sua in alcuni
esercizi spirituali».
Citiamo ancora qualche fonte
dell’epoca. Il Lancitius, uno scrittore spirituale dell’inizio del secolo XVII,
raccogliendo le tradizioni dei Gesuiti del suo tempo afferma: «Faciebat Sanctus
Carolus exercitia spiritualia Societatis Jesu quolibet anno» (faceva gli
esercizi spirituali nel modo usato nella Compagnia di Gesù ogni anno). «Per
questo mezzo cresceva sempre di più nel fervore dello spirito e si perfezionava
molto nelle sante virtù. E poi li fece due volte all’anno, e in questa abitudine
persistette fino alla morte».
Aggiungo una curiosità. I Gesuiti per
statuto facevano gli esercizi spirituali due volte nel noviziato e poi nei
grandi momenti dei voti. La pratica annuale di essi derivò ai Gesuiti
dall’abitudine di san Carlo di farli due volte l’anno, perché il suo esempio si
impresse nell’animo di coloro che, avendoglieli insegnati per la prima volta,
si sentirono poi spronati a farli essi stessi. Questo ci mostra quanto egli
conoscesse e vivesse, nella sua preghiera personale questo mondo di preghiera.
E non soltanto li faceva
personalmente, ma li raccomandava agli altri. Nel quarto Concilio provinciale
di Milano e di tutta la Lombardia – che come provincia ecclesiastica era allora
in parte più ampia di quella attuale – egli impose a tutto il clero gli
esercizi di un mese, sia a chi, in età avanzata, non li aveva ancora fatti sia
a coloro che dovevano ricevere suddiaconato, diaconato, sacerdozio. E insisté
perché si facesse un mese intero di esercizi prima delle grandi tappe della ordinazione,
e poi ancora una volta nella vita.
Una minuta di lettera al cardinale
Paleotti, del settembre 1582, ci dice qual era la prassi, che in realtà, come
succede, era un po’ meno rigida della teoria. Vi si legge: «Quanto agli
esercizi spirituali che fanno gli ordinandi ai Sacri Ordini, il tempo
determinato dal Visitatore Apostolico e dal Concilio nostro provinciale IV era
di un mese circa, mentre la pratica è di quindici giorni circa, ad arbitrio del
padre spirituale e confessore che guida quelli che fanno questi Esercizi.
Intorno poi al modo, si cerca di imitare i Padri Gesuiti e pigliar lume dalle
Regole loro, i quali hanno anco una certa forma dal padre Ignazio stampata in
quel libretto che dev’esser notissimo a Vostra Signoria Illustrissima».
Ma c’è ancora di più. Non soltanto era
prescritto che tutti i preti facessero per un mese, e poi di fatto almeno per
quindici giorni, parecchie volte in vita questi esercizi, ma nel V Concilio
provinciale del 1579 gli esaminatori del clero dovevano interrogare ogni
ecclesiastico, tra le altre cose, anche sulla sua maniera di meditare: se
avesse pratica costante della preghiera, quali meditazioni facesse, quale fosse
il suo modo nella preghiera, quale il suo frutto, quale l’utilità che egli ne
conseguiva, quali le parti della sua preghiera, quali le regole della
preparazione, ecc. San Carlo voleva che l’esaminando fosse in grado di
descrivere la sua preghiera, ne avesse dunque una pratica approfondita.
Carlo Maria Martini, La preghiera di
san Carlo