Proprio sotto Natale era venuta giù mezza
gamba di neve e ancora continuava a fioccare.
Don Camillo aveva tirato fuori le
statuine di legno del `presepio per ritoccarle e, alla mezzanotte del 22, era
ancora lì col pennellino a rinfrescare facce, 4, mantelli e dorature, e il
gatto gli faceva compagnia.
Era un gatto giovane e giocava con tutta la roba minuta che gli capitava sotto
le zampe e, un bel momento, a don Camillo capitò di dar retta a quel che stava
combinando sotto la tavola e vide che la bestia stava giocando con la statuina
di Gesù Bambino.
Don Camillo gli tirò un urlaccio e il gatto scappò via tenendo la statuina in bocca e don Camillo dovette rincorrerlo e sparargli una ciabatta, a per fargli mollare la presa.
La statuina di Gesù Bambino, don Camillo se la teneva per ultima, per potersela lavorare meglio: così tirò in giù il saliscendi della lampada e, dopo aver brontolato un po’ col gatto, incominciò a pitturare di fino.
A un bel momento la statuina di Gesù Bambino gli scivolò via di mano e cadde per terra e, chinatosi per raccoglierla, don Camillo vide che il maledetto gatto l’aveva ancora presa tra i denti.
Guardando meglio, don Camillo si accorse di una cosa strana: il gatto era un altro. Più grosso, con due occhi che guardavano in un certo modo. II gatto solito era bigio e questo era invece nero. Di dove era venuto quel gatto forestiero?
“Molla” urlò don Camillo e il gatto fece un balzo verso la porta, ma non lasciò andare la statuina.
Don Camillo si riscosse e il gatto nero uscì nel corridoio e, trovata la porta socchiusa, sgusciò via, a coda bassa, ed eccolo nel sagrato, fermo ad aspettare, nero nero in mezzo al gran bianco della neve.
“Maledetto!” urlò don Camillo che fu subito fuori anche lui.
E il gatto nero via con la statuina di Gesù Bambino tra i denti.
E don Camillo dietro al gatto.
Il gatto prese la via dei campi e don Camillo lo seguì ansimando.
Don Camillo stentava a camminare perché la neve era fresca e vi sprofondava dentro fino a mezza gamba: il gatto nero, invece, volava via come se fosse una piuma. Ma ogni tanto si fermava, volgeva il muso indietro e aspettava che don Camillo gli arrivasse a dieci metri per poi riprendere la sua corsa.
Ed ecco il fatto: il gatto nero diventava, a ogni fermata, sempre più grosso, e anche la statuina di legno di Gesù Bambino aumentava in proporzione.
Quando la bestia nera diventò enorme, come un bufalo, la statuina era alta come un bambino vero.
Ed era difatti un bambino vero. Un Gesù Bambino di carne rosea e viva.
Un Gesù Bambino che sanguinava e gemeva tra le zanne della belva nera e mostruosa.
Don Camillo lanciò un urlo di terrore e si trovò davanti alla sua tavola, con la statuina di Gesù Bambino in una mano e il pennellino nell’altra.
Il gatto, il solito gattino bigio, stava ronfando sotto il camino. Erano già le quattro del mattino e continuava a fioccare.
Don Camillo andò a dare un’occhiata in chiesa.
“Gesù” disse don Camillo inginocchiandosi davanti al Cristo Crocifisso dell’altar maggiore “ho fatto uno strano sogno.” E raccontò il sogno del gatto nero che diventava un enorme mostro e della statuina che diventava Gesù Bambino vero, sanguinante e gemente tra le zanne della belva.
“Gesù” concluse don Camillo “quel sogno mi ha turbato.”
Il Cristo sorrise: “Don Camillo: non è il sogno che ti ha turbato.Ti turba il pensiero che ha originato quel sogno.
È un pensiero che tu hai dentro di te, ed è il prodotto di un ragionamento. Tu, sotto la specie dell’apologo, hai spiegato in sogno a te stesso la sostanza del tuo pensiero”.
“Gesù” esclamò don Camillo “io intendo quel sogno come un presagio, un avvertimento soprannaturale.”
“Non è un presagio, don Camillo: non è un avvertimento, una voce che viene dal di fuori. È una voce che viene dal tuo stesso ragionamento. È la voce della tua paura.”
Don Camillo allargò le braccia: “Gesù, io non ho paura! “.
“Sì, don Camillo: tu hai paura.
Ma non per te. Hai paura per me.
Hai paura che gli uomini possano fare del male a Dio.
Si può negare il sole, si può perseguitare chi afferma l’esistenza del sole. Si può fare in modo che nessuno più veda il sole strappando gli occhi a tutte le creature, ma non si potrà per questo spegnere o soltanto offuscare mai la luce del sole.
Gli uomini non possono che fare male a se stessi.
Non possono fare del male a Dio.
Ma io non ti rimprovero per questa tua paura, perché essa non è che l’immenso amore che tu hai per me.”
Don Camillo gli tirò un urlaccio e il gatto scappò via tenendo la statuina in bocca e don Camillo dovette rincorrerlo e sparargli una ciabatta, a per fargli mollare la presa.
La statuina di Gesù Bambino, don Camillo se la teneva per ultima, per potersela lavorare meglio: così tirò in giù il saliscendi della lampada e, dopo aver brontolato un po’ col gatto, incominciò a pitturare di fino.
A un bel momento la statuina di Gesù Bambino gli scivolò via di mano e cadde per terra e, chinatosi per raccoglierla, don Camillo vide che il maledetto gatto l’aveva ancora presa tra i denti.
Guardando meglio, don Camillo si accorse di una cosa strana: il gatto era un altro. Più grosso, con due occhi che guardavano in un certo modo. II gatto solito era bigio e questo era invece nero. Di dove era venuto quel gatto forestiero?
“Molla” urlò don Camillo e il gatto fece un balzo verso la porta, ma non lasciò andare la statuina.
Don Camillo si riscosse e il gatto nero uscì nel corridoio e, trovata la porta socchiusa, sgusciò via, a coda bassa, ed eccolo nel sagrato, fermo ad aspettare, nero nero in mezzo al gran bianco della neve.
“Maledetto!” urlò don Camillo che fu subito fuori anche lui.
E il gatto nero via con la statuina di Gesù Bambino tra i denti.
E don Camillo dietro al gatto.
Il gatto prese la via dei campi e don Camillo lo seguì ansimando.
Don Camillo stentava a camminare perché la neve era fresca e vi sprofondava dentro fino a mezza gamba: il gatto nero, invece, volava via come se fosse una piuma. Ma ogni tanto si fermava, volgeva il muso indietro e aspettava che don Camillo gli arrivasse a dieci metri per poi riprendere la sua corsa.
Ed ecco il fatto: il gatto nero diventava, a ogni fermata, sempre più grosso, e anche la statuina di legno di Gesù Bambino aumentava in proporzione.
Quando la bestia nera diventò enorme, come un bufalo, la statuina era alta come un bambino vero.
Ed era difatti un bambino vero. Un Gesù Bambino di carne rosea e viva.
Un Gesù Bambino che sanguinava e gemeva tra le zanne della belva nera e mostruosa.
Don Camillo lanciò un urlo di terrore e si trovò davanti alla sua tavola, con la statuina di Gesù Bambino in una mano e il pennellino nell’altra.
Il gatto, il solito gattino bigio, stava ronfando sotto il camino. Erano già le quattro del mattino e continuava a fioccare.
Don Camillo andò a dare un’occhiata in chiesa.
“Gesù” disse don Camillo inginocchiandosi davanti al Cristo Crocifisso dell’altar maggiore “ho fatto uno strano sogno.” E raccontò il sogno del gatto nero che diventava un enorme mostro e della statuina che diventava Gesù Bambino vero, sanguinante e gemente tra le zanne della belva.
“Gesù” concluse don Camillo “quel sogno mi ha turbato.”
Il Cristo sorrise: “Don Camillo: non è il sogno che ti ha turbato.Ti turba il pensiero che ha originato quel sogno.
È un pensiero che tu hai dentro di te, ed è il prodotto di un ragionamento. Tu, sotto la specie dell’apologo, hai spiegato in sogno a te stesso la sostanza del tuo pensiero”.
“Gesù” esclamò don Camillo “io intendo quel sogno come un presagio, un avvertimento soprannaturale.”
“Non è un presagio, don Camillo: non è un avvertimento, una voce che viene dal di fuori. È una voce che viene dal tuo stesso ragionamento. È la voce della tua paura.”
Don Camillo allargò le braccia: “Gesù, io non ho paura! “.
“Sì, don Camillo: tu hai paura.
Ma non per te. Hai paura per me.
Hai paura che gli uomini possano fare del male a Dio.
Si può negare il sole, si può perseguitare chi afferma l’esistenza del sole. Si può fare in modo che nessuno più veda il sole strappando gli occhi a tutte le creature, ma non si potrà per questo spegnere o soltanto offuscare mai la luce del sole.
Gli uomini non possono che fare male a se stessi.
Non possono fare del male a Dio.
Ma io non ti rimprovero per questa tua paura, perché essa non è che l’immenso amore che tu hai per me.”
- Giovanni Guareschi -
da: " Mondo
piccolo" Biblioteca Universale Rizzoli, ed. Bur, pagg. 347-348
Non per me
Ti prego
ma per chi non prega mai
e per chi vorrebbe ma non osa.
Non per me
domando forza
ma per chi non ce la fa nemmeno a domandare.
Non per me
invoco protezione
ma per chi, funambolo dell'esistenza,
barcolla sul baratro della disperazione.
Non per me
ma per gli altri è oggi la mia preghiera.
- Patrizio Righero -