L'uomo vive e cresce. Intorno,
attraverso e dentro di lui si compiono continuamente dei processi, per i quali
egli viene per così dire contessuto nella natura, come avviene anche della
pianta e dell'animale. Per altri riguardi invece se ne distingue. Per una cosa
innanzitutto: egli non solo cresce, non solo si muove, non solo opera per
l'istinto di conservare e dilatare la propria vita, ma agisce. Ora agire
significa che io faccio una cosa, che non è semplicemente posta in me stesso;
esercito un dominio in me e intorno a me su ciò che è « dato »; che plasmo,
produco qualche cosa e me la pongo innanzi; che tendo verso mete e creo opere.
In questo agire v'è
un'importante distinzione da fare: ben altro è se agendo voglio soltanto
attuare un «fine»; e ben altro, se adempio un «dovere ».
Dei fini ne attuo
continuamente. Se voglio trovar qualcuno, devo recarmi da lui; per andarci devo
sceglier la via o usare i mezzi di trasporto che mi vi conducono ecc. La vita
famigliare, professionale e pubblica costituisce un intreccio di scopi e di
azioni ad essi ordinate. Il senso di queste azioni è tutto qui: che venga
attuato il loro fine. Ma il fine voglio raggiungerlo, perché lo vedo necessario
o utile alla mia esistenza.
Diversa è la cosa quando si
tratta di adempiere un dovere: di dir la verità, perché è giusto il dirla; di
lavorare, perché ne ho l'obbligo; di essere giusto, perché ne riconosco il
debito. Il dovere lo adempio non già perché con esso voglia raggiungere un
fine, - benché in fondo ci sia anche questo, perché il dovere è sempre
collegato con dei fini - ma perché è giusto intrinsecamente. Il carattere
comune di tutte le azioni tendenti ad un fine sta nell'«utile»: si tratta di
cosa necessaria o utile alla mia esistenza. Al contrario il carattere comune di
ogni dovere; ciò che rimane, se astraggo da tutti i contenuti particolari, sta
nella parola: è bene; bene in sé.
Concentriamo dunque la forza
del nostro sguardo e la nostra sensibilità su ciò che significa la parola «il
bene ». Incontreremo in questo studio ogni sorta di ostacoli. Oggi siamo
alquanto scettici e a chi ci parla del bene ci vien voglia di rispondere con la
domanda di Pilato: «Che cosa è il bene?» - una domanda che non aspetta alcuna
risposta, perché chi la pone è persuaso in anticipo di non riceverne alcuna.
Certo questo scetticismo ha anche un significato e importa molto che lo si
avverta. Ma qui non possiamo addentrarci in questa indagine senza perderci in
un labirinto. Dobbiamo andare al di là dello scetticismo, attraversandolo, e
superarlo. Dobbiamo superare anche le tristi e accascianti esperienze che ci ha
forse procurate il nostro sforzo verso il bene... tutti gli smarrimenti del
pensiero, della parola e della letteratura della nostra epoca... tutto questo
incalzare e tramutarsi intorno a noi spesso così caotico e così impenetrabile
alla sguardo, che ci sembra impossibile di raccapezzarvisi... questo e altro
ancora dobbiamo superare.
Noi dobbiamo far parlare quello
che in noi v'è di intimo. Esso ci dice: il bene esiste! Esiste quel
carattere supremo che può posarsi sull'azione meno appariscente e conferirle il
suggello di un'assolutezza, superiore ad ogni scopo particolare. Esiste quel
qualche cosa di definitivo, che non può più venir discusso ed ha in sé la nota
della grandezza genuina. Esiste quel vertice supremo, sul quale, quando tutto
si sconvolge e va alla deriva, posso rifugiarmi dicendo: «Ho voluto il bene ».
Questo esiste. Quel qualche cosa che non dipende da nulla d'altro ma esiste in
sé; che non riceve la sua giustificazione dal di fuori, ma porta la sua dignità
in se stesso, quel qualche cosa, davanti al quale non è lecito restare
indifferenti, se non si vuol mettere a repentaglio con leggerezza la propria
intima dignità.
Il bene è quell'ultima cosa non
più discutibile, alla quale è legato il mio supremo e non più discutibile
destino.
Ora questo bene non è campato
in aria, quasi estraneo, in uno spazio inaccessibile. Il bene è in relazione
con me; mi tocca. C'è in me qualche cosa che per sua natura risponde al bene,
come l'occhio alla luce: la coscienza.
E qui di nuovo dobbiamo
superare un impedimento. Fra le tendenze dell'età moderna v'è quella di negare
radicalmente l'assolutezza della coscienza. Di ridurre la coscienza ad una
questione di temperamento, e quindi contrapporre all'uomo «morale» un uomo
«amorale», oppure ridurre la coscienza a un prodotto della storia o
dell'ambiente sociale. Così essa sarebbe qualche cosa che è maturata a poco a
poco, che si è acquistata con l'educazione e che potrebbe anche scomparire di
nuovo. Bisogna anche qui farsi largo attraverso un intrico di semiverità
sociologiche, psicologiche e storiche fino al fatto elementare: la coscienza
esiste! Esiste in noi quel supremo qualche cosa, che è in relazione col
bene, che risponde al bene come l'occhio alla luce.
La forza di questa
risposta può venire infirmata; può, per atavismo o influsso dell'ambiente,
venire attutita e tratta in errore da esperienze personali. Ma quando vogliamo
vedere una cosa, dobbiamo cercarla là dove si presenta nella sua piena luce;
allora siamo in grado di giudicarla, anche quando è offuscata. E allora siamo
costretti a dire: la coscienza esiste. La portiamo viva in noi. Essa si fa
sentire; nel bene come nel male.
E per comprenderne subito la
natura particolare, cerchiamo di penetrare un po' la parola: coscienza. È
qualche cosa di più che il puro «sapere qualche cosa». Significa consapevolezza
di qualche cosa. Vi è incluso dunque un carattere di interiorità; significa un
aver presso di sé; un trovarsi, da solo a solo, con qualche cosa; un
abbracciare e un penetrare. Racchiude una profondità che si esplica nella
proposizione: « Sono conscio, a me stesso, che ciò è bene ». Qualche cosa di
intimo dunque; qualche cosa che sta in rapporto con quello che esprime l'antico
concetto di «fondo dell'anima», di scintilla animae.
Ma la cosa che si conosce in
tal modo è appunto il bene. Lasciamo stare, ora, per un momento tutto questo e
procediamo nelle domande.
Il bene - che cos'è il bene? Se
ci riflettiamo, rispondiamo interiormente con un atteggiamento stranamente
contraddittorio: abbiamo la sensazione di trovarci davanti a qualche cosa che
ci è molto familiare. Ci sembra di conoscerlo; di avere chiara la percezione
del suo carattere e della sua natura. E al tempo stesso rimaniamo sospesi, disorientati,
incapaci di formulare e di concretare. Questo qualche cosa, che pur conosciamo,
sembra scivolarci di mano, non appena lo vogliamo afferrare. Ricorre alla mente
la parola di Agostino: «Se non me lo chiedi, lo so. Ma se me lo chiedi ed io
debbo dirlo, allora non lo so ». Che significa questo?
Dapprima e innanzi tutto: il
bene è qualche cosa. È non soltanto un «come», una forma, come, ad es., sarebbe
espressa nella proposizione: «Importa non tanto quello che si fa, quanto che
nel fare si abbia intenzione». Il «fare con buona intenzione» potrebbe essere
una pura forma capace di ogni contenuto. Tutto potrebbe «venir fatto con buona
intenzione». Ma non è così. Ciò sarebbe relativismo, scetticismo. Se
consideriamo a fondo, avvertiamo esattamente che il bene è un qualche cosa che
bisogna volere; un contenuto. Ma che cos'è dunque?
Il bene è il bene. Non lo
possiamo scomporre in elementi più semplici. Non possiamo dire, a mo'
d'esempio: il bene è l'amore del prossimo; ovvero, è la fedeltà verso se stessi.
Avremmo soltanto una parte, una manifestazione del bene. D'altro canto non
possiamo nemmeno dire: il bene è il vero, bensì - appunto il bene. È quello che
è.
È però sempre un contenuto;
qualche cosa di positivo; più ancora: è positività pura e semplice. Compendio
ideale di dignità, di grandezza, di valore. Qualche cosa, oltre la quale non
posso spingermi; che esiste in sé, appunto perché è una totalità ideale infinita (unendlicher
Inbegriff).
Ma non basta ancora: il bene è
qualche cosa di vivente. Non un'idea astratta, non una semplice «legge», ma
qualche cosa di spiritualmente vivo. Me lo dice l'esperienza. Tale mi si
presenta interiormente, e come tale tocca la mia coscienza.
Io non posso ridurre il bene ad
altra cosa, poiché esso stesso è un termine ultimo. Ma non ne ho nemmeno
bisogno, come se per comprenderlo dovessi ricorrere all'aiuto di altri
concetti; perché la forza del suo contenuto, del suo « Sì », del suo: «Così »,
del suo « Questo» è intuitiva. Lo si comprende direttamente.
Inoltre: il contenuto del bene
è infinito, come del pari la sua validità è assoluta. Quando cerchiamo di
afferrarlo nella sua purezza, sentiamo che la profondità di questo contenuto è
insondabile, la sua ampiezza incommensurabile, la sua pienezza inesauribile, la
ricchezza delle sue qualità e del suo valore incalcolabile. L'infinità del
contenuto appartiene all'essenza del bene. Nello stesso tempo però il bene è
affatto semplice. La filosofia greca, per misurare il grado di nobiltà di un
essere, conosce un criterio che dice: un essere è tanto più elevato, quanto più
ricco contenuto abbraccia e al tempo stesso quanto più è semplice. Ecco dunque:
il bene è contenuto infinito e semplicità perfetta.
Ma è appunto di qui che deriva
la difficoltà di rispondere alla domanda: che cosa è il bene? Lo sguardo si
smarrisce nella pienezza del contenuto; e la semplicità fa sì che questo sfugga
all'occhio.Tuttavia la domanda rimane: Che cosa è il bene?
Per mio conto ho cercato di
rispondervi nel seguente modo: Il bene vivente batte alla mia coscienza.
Accolto dalla mente e dal cuore, esso preme per essere tradotto in azione
umana. Il primo e più importante compito della coscienza consiste nell'avvertire
la voce imperiosa del bene, che vuol essere attuato in modo degno dell'uomo. Il
bene dunque domanda e insiste: «Accoglimi! Intendimi! Voglimi! Attuami!».
La coscienza risponde - supponiamo che risponda così! certo può opporre anche
un rifiuto o schermirsi - essa risponde dunque: «Voglio! Tu, o bene...». Ma qui
si arresta e riflette: «Se ti voglio tradurre in atto... che devo
fare? Tu, bene - che cosa sei tu? ». In un primo momento non segue risposta
alcuna. Non è infatti possibile esprimere senz'altro ed esaurientemente il bene
in contenuti concreti e realizzabili. A tale domanda il bene tace. Ma la cosa
non finisce lì. Nell'istante che segue, supponiamo, dev'esser fatto qualche
cosa per dovere professionale. Ed ecco venire la risposta: «Ciò che qui va
fatto; che venga fatto in retta conformità alle esigenze delle cose, - ecco
quello che sono », dice il bene.
In altre parole: che cosa
sia il bene, che domanda di essere tradotto in atto, risulta chiaramente da ciò
che di volta in volta deve compiersi.
Qui abbiamo da chiarirci
un concetto importante: quello della situazione.
Noi distinguiamo fra «
situazione» e « caso ». Vorrei mettere in evidenza questa distinzione con un
aneddoto. In un crocchio si racconta la storia di due mercanti che attraversano
il deserto. Un giorno l'acqua accenna ad esaurirsi. La provvista basta ancora
appena per uno. Ora i presenti discutono intorno a quello che debbono fare i
mercanti. Spartire l'acqua e poi morire? Oppure è il caso che il più anziano
beva e il giovane si sacrifichi? O deve cedere il più anziano per amore della
vita del giovane? Ma ecco un vecchio signore alzarsi e dire: «Il vostro
discorso è ozioso. Nel caso, che noi consideriamo, manca quello che è
decisivo, cioè manchiamo noi stessi! Si tratta di un caso puramente teorico,
che non ci riguarda. Fossimo noi stessi in quella situazione, allora sì
sapremmo quello che ci toccherebbe fare ». Ora la distinzione ci balza negli
occhi: «caso» significa una combinazione di uomini, di circostanze e di fatti,
nella quale non c'entro. Non mi impone doveri. Posso considerarlo da un punto
di vista puramente teorico. «Situazione» invece vuol dire un complesso di
uomini, di circostanze e di fatti, dei quali io faccio parte; che mi
riguardano; che esigono da me qualche cosa. Del caso posso non curarmi, ma
della situazione no. Essa esige che io prenda posizione, che mi decida, che
agisca.
Ora, è appunto la situazione a
dirmi che cosa sia il bene. Il comando di esser tradotto in atto da parte del
bene, comprensivo di tutto e al tempo stesso affatto semplice, riceve di
continuo, ad ogni passo che faccio, un nuovo significato dalla situazione
sempre nuova, che si riproduce intorno a me. Il rapporto col bene può essere
considerato sotto vari aspetti. Il punto di vista che noi abbiamo scelto potrà
aver naturalmente le sue deficienze; esso ci svelerà però sempre qualche cosa
di molto importante: la grandezza di quel rapporto e il fatto
ch'esso è vivo e concreto.
Il rapporto morale è qualche
cosa di grande. Prendiamo la parola nel suo significato più ovvio. Lo
scardinamento morale della nostra epoca deriva pure in buona parte non già dal
fatto che il dovere morale venga sentito come un peso troppo grave, ma che lo si
vede come troppo meschino; dal fatto che lo si degna appena di uno sguardo
superficiale e svogliato. Il dovere morale non è una forma vuota, ma pienezza
di contenuto; non è povertà, ma ricchezza infinita. Esso batte alla mia
coscienza, al mio cuore e vuol esser compreso, affermato, attuato. C'è qualche
cosa di inesprimibilmente grande nella consapevolezza di essere quasi un
ambasciatore del bene nel mondo, un esecutore della sua missione. Di esser
colui, al quale è affidato il destino del bene - che è pur la cosa più sublime,
ma anche, appunto per questo, la più delicata, e, in questo mondo di violenze,
la più debole. Il bene non diventa realtà, se non lo attuo. Meditiamo tutto ciò
col più nobile orgoglio del nostro cuore!
Il bene non è una legge
morta. È la vita infinita che vuol essere inserita in questa realtà. Nella
sua pura essenza questa vita è per noi inesprimibile; appunto perché è infinita
e nello stesso tempo semplicissima. Ma essa vuole assumere una figura terrena,
umana. È ciò che avviene nell'azione morale. L'attività morale ha in sé qualche
cosa di misterioso. Non è soltanto adempimento di una legge, esecuzione di una
norma, ma donazione di vita. È una generazione e una immissione di nuova vita
nella realtà finita, realtà finita ed umana che con ciò consegue una pienezza
di senso eterna.
Il fare il bene equivale perciò
ad una vera creazione. Non è semplice esecuzione di un ordine, ma attuazione
creatrice di qualche cosa che ancora non è. La nostra vita morale s'impoverisce
perché diventa noiosa. Perché per lungo tempo, sotto l'influsso di un'etica
razionalistica, sotto l'influsso del formalismo kantiano e di una morale
schematizzata, venne concepita come semplice esecuzione di ordini. Ma non è
così. Dobbiamo accostarci una volta con orecchio intento a Platone, in cui per
primo si fece strada la coscienza del problema, per sentir tutta la passione
creatrice dell'azione morale. Nell'attività morale si tratta di render reale,
umanamente reale quello che ancora non lo è. Si tratta di dar forma terrena a
qualche cosa di eterno e di infinito.
Ma ciò importa due cose:
anzitutto, che noi afferriamo quella cosa grande ed eterna, che è il bene.
Come? Con qual mezzo? Con l'unica forza che può afferrarlo: con la libertà
della nostra volontà, o meglio del nostro cuore, la quale dice: «Sì, sono
pronta al bene»; la quale si erge e vuole e si protende verso il bene, ne
«sente la fame e la sete», e lotta per raggiungerlo col sentimento profondo,
che si apre, accoglie, ospita, «fino che tutto è lievitato», tutto purificato e
nobilitato. E quanto più pura la prontezza, quanto più risoluta la volontà;
quanto più profondo e più forte il desiderio; quanto più aperto, più puro e più
pienamente disposto il nostro intimo, tanto più saldamente e pienamente
possediamo il bene, nel nostro spirito e nel nostro cuore.
Ma poi, con le opere, dobbiamo
trasfondere il bene nella realtà, altrimenti esso resta aspirazione
infeconda. Bisogna che ne imprimiamo la forma nella materia della realtà che ci
circonda: nella situazione. Ciò vuol dire che dobbiamo afferrare ciò che è
nuovo; quello che qui mi sta attorno: uomini, avvenimenti, cose, circostanze.
Tutto ciò arriva, diviene, si articola, qui, adesso - e in questo momento
bisogna che lo afferri. Devo vedere: che cosa importa per me tutto questo che
mi circonda? A quali cose devo rivolgere il mio sguardo? Il mio giudizio? Che
cos'è qui il bene? Vedere, giudicare, deliberare, fare tutto ciò; chiaramente,
magnanimamente, ponderatamente, risolutamente; con atto energico e netto, che
abbia sangue e colore, lo slancio del cuore e la sicurezza della mano - questo
significa fare il bene.
Agire moralmente significa
quindi creare qualche cosa; non in pietra o in colore o in suono, ma nella
materia reale della vita. Il mondo è sempre incompiuto. Esso ci viene incontro
incessantemente sotto forma della situazione, affinché, con l'attività morale,
lo portiamo a compimento, dandogli l'impronta del bene. La vita morale è
disertata su larga scala. Le forze creatrici si sono trasferite al servizio di
un'arte raffinata, di un'attività politica sfrenata, di un'economia pura o di
qualsiasi altra cosa. È tempo che riconosciamo di nuovo che l'attività morale è
una creazione e vi convogliamo di nuovo le vive energie morali.
La moralità non è un affare
speciale, accanto ad altri, poiché essa si estende a tutta la realtà. Il suo
contenuto si estende a tutto ciò che esiste. Tommaso d'Aquino dice: «Bisogna
fare il bene. Ma che cos'è il bene? Quello che di volta in volta si presenta
come ragionevole, conforme all'essere ». Ma questa «cosa di volta in volta
conforme all'essere» è appunto la situazione con tutta la pienezza del suo
contenuto; la vita che nella situazione mi viene incontro in forma sempre
nuova, con tutto quello che in essa si contiene. Tanto più grande è il valore
dell'atto morale, quanto più pienamente io afferro il ricco contenuto della
situazione dal fatto che io veda la pienezza di contenuto della realtà,
affinché il bene, semplice e comprensivo, possa manifestarvi la sua ricchezza.
Ma con ciò torniamo alla
questione del disorientamento morale del nostro tempo. Questo disorientamento
esiste. E non soltanto perché manca la gioia della creazione morale, ma anche
perché, in mezzo a tutte le trasformazioni della nostra epoca, si sono perse di
vista le linee fondamentali della morale. Hanno preso campo la confusione nella
terminologia morale stessa e la diffidenza contro le forme morali correnti. Non
investighiamo le cause di questo fenomeno. Saranno da ricercarsi nel
soggettivismo, nell'insofferenza di freni e nella sbrigliatezza, che sono la
caratteristica della nostra età. In parte dovranno attribuirsi anche al
pensiero morale tradizionale, che per molti riguardi si è fossilizzato in forme
lontane dalla viva realtà. Ognuno la pensi come vuole. In ogni caso sta il
fatto che ci troviamo di fronte ad un disinteressamento e ad un disorientamento
morali assai diffusi. A giudizio di molti l'atto morale non compensa il serio
sforzo che esige. Altri a loro volta, che sarebbero pronti a tale sforzo, non
sanno da che parte incominciare. Si sentono come sperduti nel caos, non vedono
chiaro circa le norme e non sanno mettersi d'accordo.
Qui si vuol stimolare al
lavoro; della ricerca, del pensiero, dello scambio d'idee. Importante
soprattutto però ci sembra che vengano incoraggiate in tutti i modi le energie
dell'attività morale; che l'uomo comprenda il dovere morale nella sua grandezza
e nella sua pienezza. Che acquisti consapevolezza delle sue forze. Che
purifichi sinceramente i suoi sentimenti e poi si metta all'opera con fiducia.
Bisogna che sorga l'uomo, che compie con gioia e con serietà il dovere morale;
che brama il bene; che si sente incalzato, eccitato e intimamente assorbito dal
dovere morale; che ha gli occhi aperti per quello «che deve fare» e per quello che
gli uomini, avvenimenti e cose reclamano; che sa volere e sa impegnarsi a
fondo. Che quest'uomo sorga, che si metta all'opera e poi il ristagno morale
sarà superato. I doveri allora si presentano da sé e le mète diventano chiare.
Le parole vengono senza fatica, e si ricostituisce la comprensione e l'unione
delle volontà. Allora tutta la pienezza della verità e della sapienza,
contenuta nella morale cristiana, verrà di nuovo sentita e sarà accolta con
rispetto.
Se questo è importante per
l'uomo, è importante anche dal punto di vista della donna, la quale oggi ha una
larga parte nel pensiero e nell'azione. L'uomo in fin dei conti può anche
vivere sotto una ferrea disciplina; diciamo meglio: lo può meglio d'altri. Ma
la donna intristisce in tale condizione. Tutta la sua attività in prima linea è
diretta non ad un lavoro. Anche al lavoro; ma in prima linea e più propriamente
alla vita. La donna non attua delle norme, ma a quello che interiormente
incalza dà corpo e terrena esistenza. La via dalla ricchezza infinita alla
forma particolare: ecco il suo compito più profondo. La realtà dell'essere e
della vita, ovunque si manifestino e in tutta la loro ricchezza, è ciò che la
sostanzia. Questa realtà deve accostarsela al cuore e metterla in contatto con
la sua vita, affinché diventi materia capace di quella forma.
Ed ora ritorniamo al concetto
della coscienza. Coscienza è, anzitutto, quell'organo, per mezzo del quale
io rispondo al bene e divento consapevole di questo: « Il bene esiste; ha
un'importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato ad esso; il
bene bisogna farlo; questo fare decide di un destino supremo ». La coscienza
però è anche l'organo, mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento
e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il
bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L'atto della
coscienza è dunque quell'atto, col quale penetro di volta in volta la
situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto, e per ciò
stesso il bene (1).
Così la coscienza è anche la
porta, per la quale l'eterno entra nel tempo. È la culla della storia. Solo
dalla coscienza sgorga « storia », la quale significa ben altro che non un
processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana,
qualche cosa di eterno entra nel tempo.
Ma ciò non corre così liscio e
cozza contro difficoltà.
Anzitutto la «situazione» è
spesso tutt'altro che semplice. Esigenze molteplici e perfino contraddittorie
vi trovan luogo. Le più diverse relazioni d'uomini e di cose vi si collegano,
si incrociano e si contraddicono a vicenda. Quanto più desta è la sensibilità
per le esigenze degli uomini, delle cose e delle circostanze, tanto più
difficile diventa il riconoscere quello che in definitiva si debba fare.
Formare la coscienza vuol dire appunto allargare l'angustia dello sguardo per
abbracciare la molteplicità delle forme, superare l'ottusità della sensibilità
ai molteplici valori che ci rivolgono il loro appello, significa che l'uomo
affini la sua sensibilità per comprendere a pieno e nelle loro sfumature le
esigenze morali. Ma nella misura in cui questo avviene, cresce il pericolo
opposto: che egli si perda in questa molteplicità e che a furia di voler
vedere, capire e rettificare, non arrivi alla decisione e all'azione.
In secondo luogo: ogni situazione,
che mi si presenta, arriva un'unica volta. Essa non è mai esistita e non
tornerà più. Vi sono, è vero, delle somiglianze. Non è la prima volta che un
uomo viene e chiede di essere aiutato. In realtà però esiste, non « un uomo »,
ma sempre solo « quest'uomo ». E che « egli» com'è, si presenti a me, come
sono, in queste determinate circostanze e con questa domanda, avviene
quest'unica volta. E se tornasse anche domani con la stessa preghiera, e per il
medesimo favore, si sarebbe modificato in noi almeno questo, che la nostra età
avrebbe fatto un passo innanzi e che si sarebbe accumulato in noi tutto quello
che dopo l'ultimo incontro avremmo fatto ed esperimentato. Ogni situazione si
presenta una unica volta. Per cui anche quello che deve avvenire in essa non è
mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna dunque che venga divinato e plasmato
per la prima volta. Certo ci giova l'esperienza del passato; ci giovano gli
educatori, gli amici, l'ambiente, con princìpi generali e con esempi analoghi.
Ci soccorrono il comandamento positivo divino e il precetto dell'autorità
legittima posta da Dio. Ma con ciò non veniamo esonerati dal compito di
afferrare questa situazione nelle sue specifiche particolarità, di
interpretarla e di decidere quello che debba esser fatto, per corrispondere
appieno alle sue esigenze. E il grado di perfezione dell'azione morale dipende
appunto dalla misura, nella quale vien capita la situazione nella sua unicità.
Certo abbiamo bisogno della regola. Essa ci mostra quello che vi è di tipico
nella situazioni e ci aiuta così a comprenderle. Ma quanto più nell'agire
badiamo a ciò che è tipico, tanto più ci accorgiamo di svuotare la situazione, e
ci sentiamo spronati ad attendere al momento contrapposto, vale a dire, a ciò
che è specifico, anzi unico.
E ancora una terza cosa: ci
fosse pure concesso di volere inequivocabilmente il bene in tal modo comandato!
Ma purtroppo non è così! In verità noi siamo spesso ricalcitranti, se non
proprio con la nostra volontà consapevole, almeno con una resistenza
incosciente. Quello che la dottrina della fede ci insegna del male nascosto
nell'uomo, e cioè della sua resistenza al bene, trova nella psicologia moderna
il suo fondamento scientifico formale. Questa ci mostra infatti che noi non
siamo mai senza impulsi della volontà e senza tendenze. Anche quando crediamo
di esaminare senza prevenzioni e di agire oggettivamente, stiamo sotto
l'influsso di impulsi positivi o negativi. Questi in certe circostanze sono del
tutto inconsci e perciò inaccessibili alla nostra consapevole esperienza;
ovvero provengono dalla subcoscienza e balenano appena..., e così attraverso
tutte le gradazioni di parziali consapevolezze fino alle intenzioni chiare.
Questi impulsi però non sono affatto sempre rivolti al bene. Al contrario. Ed influiscono
non soltanto su quello che facciamo, ma anche sulla nostra conoscenza e sul
nostro giudizio. Essi deviano lo sguardo dal suo oggetto; accentuano
nell'oggetto dei lati particolari o li attenuano; lumeggiano od offuscano;
alterano; anzi possono far scomparire del tutto una circostanza di fatto.
Ed ecco che appare chiaro,
quale compito spetti alla coscienza.
Il suo sguardo dev'essere
aperto per abbracciare pienamente tutto il contenuto della situazione; per
vedere gli uomini, quali sono; per sapere quali siano le circostanze e quali i
rapporti, e quali esigenze debbano venir prese in considerazione. Questo
sguardo deve tenersi libero da tutto ciò che può offuscarlo, impedirlo e
distrarlo. Sempre più interiormente deve compenetrarlo la limpidezza, la quale
sa vedere, perché vuole veramente vedere. Tutta la molteplicità oggettiva della
situazione deve venir colta e interpretata secondo la visuale definitiva, che
ne dia il significato.
Significato definitivo di una
situazione non ancora esistita e che non tornerà più; per la quale posso però e
debbo imparare dall'esperienza dell'umanità, dall'esperienza di coloro che mi
hanno educato e dalla mia stessa esperienza precedente, poiché il principio
universale e l'incontro vivo e concreto si spiegano l'un l'altro
reciprocamente. Tutto questo però non mi solleva dal compito di appigliarmi al
nuovo che si presenta soltanto qui e di plasmarlo con gli elementi che esso
stesso mi offre; dal compito di guardare e di interpretare, di ardire e di
creare.
Ma quando la situazione è tale
da ammettere diverse interpretazioni e da non offrire alcuna chiara direttiva
per l'azione, allora è la coscienza che deve decidere. Allora essa deve
dichiarare: «Il meglio è questo. Così bisogna agire! ». E tale decisione deve
mantenerla ed eseguirla.
La coscienza è dunque l'organo
per l'eterna esigenza del bene, che deve venir attuato: la coscienza è per
l'uomo come una finestra aperta sull'eternità. Una finestra però che allo
stesso tempo dà anche sul corso del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. La
coscienza è l'organo, che trae l'interpretazione del comandamento del bene,
eterno e sempre nuovo, dai fatti concreti; l'organo col quale sempre di nuovo
si riconosce in qual modo il bene eterno ed infinito debba venir attuato nella
specificazione del tempo. È un obbedire e al tempo stesso un creare; un
comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.
1) Affinché si chiarisca
completamente quel che s'è detto, dovrei accennare al fatto che alla situazione
appartiene tutto quello che concerne la persona la quale vi si trova, e che il
suo peso si commisura al significato che ha in se stessa. La parola della
Rivelazione, la dottrina della Chiesa, la tradizione cristiana perciò le
appartengono ed esigono di ricevere una valutazione corrispondente al loro peso
ontologico proprio nel giudizio d'essa. Una interpretazione della situazione,
che prescindesse da tali elementi, non coglierebbe la realtà quale essa è.
Fonte: La coscienza, Ed. Morcelliana, 1977
Si racconta che un giorno i demoni mentre Macario stava
mietendo, gli presero la falce e minacciarono di ucciderlo. Macario però non si
impaurì ma gridò: “Se il Signore ve ne ha dato il potere, fatela cadere su di
me, altrimenti andatevene nelle tenebre”. Vinti dal coraggio di Macario i
demoni si misero a gridare: “Con te abbiamo finito per sempre perché tutta la
fatica affrontata per combatterti è stata vana. Non abbiamo guadagnato nulla da
te”. E Macario rispose: “Non è la mia forza a far questo, ma la grazia di Dio”
(Vita copta, s. Macario il Grande)
Halloween è un osanna al diavolo. Penso che la società
italiana stia perdendo il senno, il senso della vita, l'uso della ragione e sia
sempre più malata. Festeggiare la festa di Halloween è rendere un osanna al
diavolo. Il quale, se adorato, anche soltanto per una notte, pensa di vantare
dei diritti sulla persona.
Padre esorcista Don Gabriele Amorth
Non può cadere pioggia
senza nube, e non si può esser graditi a Dio senza una buona coscienza.
san Marco l’Asceta
Buona giornata a tutti. :-)