giovedì 4 novembre 2021

Vestirsi da condannato a morte di un lager nazista È un insulto imperdonabile ai milioni di uomini, donne, bambini, vittime della ferocia nazista e del buio della ragione - Vasilij Grossman

«Donne e bambini si tolgano le scarpe, prima di entrare nella baracca. Infilate le calze nelle scarpe. Quelle dei bambini dentro i sandali, le scarpe o gli stivaletti. Ordine, mi raccomando». E di nuovo: «Portate nei bagni gioielli, documenti, denaro, asciugamano e sapone... Ripeto...». 

Dentro la baracca femminile c’è la parrucchiera; nude, le donne vengono rasate a zero, alle più anziane tolgono la parrucca. È un momento strano, psicologicamente: le addette hanno poi sostenuto che di solito quella rasatura ante mortem convinceva le vittime che davvero sarebbero andate a lavarsi. 

Le più giovani si tastavano il cranio e, sentendo qualche punta ispida, capitava che chiedessero un ritocco. Solitamente dopo la rasatura le donne erano più tranquille, tutte o quasi lasciavano la baracca con in mano un pezzo di sapone e un asciugamano piegato. Tra le più giovani qualcuna piangeva le belle trecce perdute. Perché le rasavano? Per illuderle? No, perché la Germania aveva bisogno dei loro capelli. Erano materia prima... Ho chiesto a diverse persone che cosa se ne facessero, i tedeschi, della montagna di capelli che rasavano a quei cadaveri ancora in vita. 

Tutti i testimoni riferiscono che cumuli enormi di capelli neri, biondi e color dell’oro, di riccioli e di trecce venivano sottoposti a disinfezione, pressati nei sacchi e spediti in Germania (…)

Gli uomini si spogliano fuori. Dal primo scaglione del mattino ne vengono scelti un centocinquanta – trecento tra i più forti e robusti: verranno usati per seppellire i cadaveri, e verranno uccisi, di norma, il giorno seguente. Gli uomini devono spogliarsi in tutta fretta, ma con ordine, riponendo per bene scarpe, calzini, biancheria, giacche e pantaloni. 

A occuparsi della selezione degli indumenti è una seconda squadra, i «rossi», cosiddetti per la fascia rossa che li distingue da coloro che si occupano del «trasporto». Quanto è ritenuto degno di essere inviato in Germania viene subito portato al deposito.

Nude, le vittime vengono condotte a uno sportello, la «cassa», dove sono invitate a consegnare documenti e preziosi. E la solita voce ipnotica grida: «Achtung! Achtung! Chiunque venga scoperto a nascondere gioielli verrà ucciso! Achtung!».

Qui, alla «cassa», la svolta decisiva – qui finisce la tortura della menzogna che tiene le vittime in uno stato ipnotico di incertezza, in un delirio febbrile; nell’arco di qualche minuto si passa dalla speranza alla disperazione, da visioni di vita a visioni di morte. La tortura della menzogna era un elemento chiave nella catena di montaggio della morte, facilitava il lavoro delle SS. Ma quando sopraggiungeva l’atto finale, l’ultimo saccheggio di quei cadaveri ambulanti, la musica cambiava. E allora i tedeschi spezzavano le dita per strappare gli anelli alle donne, o laceravano loro i lobi per portarsi via gli orecchini.

Il tragitto dalla «cassa» al luogo dell’esecuzione richiede qualche minuto in tutto. Spronate dai colpi, stordite dalle grida, le vittime arrivano su un terzo piazzale e per un istante si fermano, interdette.

Il silenzio sopraggiungeva quando le porte delle camere a gas venivano chiuse. E le grida ricominciavano quando arrivava un nuovo lotto di donne.

Due, tre, quattro, anche cinque volte al giorno. Perché Treblinka non era un semplice luogo di morte. Era una fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quelle della moderna produzione industriale su larga scala.

***

Queste parole sono di Vasilij Grossman, scrittore e giornalista sovietico, che nel 1944 entrò nel campo di sterminio di Treblinka, dove poté toccare con mano la ferocia nazista.

Vestirsi da condannato a morte di un lager nazista non è una provocazione.

Non è un modo per attirare l’attenzione.

Non è una ragazzata.

Non è solo un gesto ignorante e meschino.

È un insulto imperdonabile ai milioni di uomini, donne, bambini, vittime della ferocia nazista e del buio della ragione.

(La citazione è tratta da: Vasilij Grossman, L'inferno di Treblinka, Adelphi, 2013)



«  Sabato sera, mezzanotte e mezzo
[...] Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose.
Si deve insegnarlo agli ebrei.
Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto.
Non possono farci niente, non possono veramente farci niente.
Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori con il nostro atteggiamento sbagliato: con il nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, con il nostro odio e con la millanteria che maschera paura. Certo ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli.
Trovo bella la vita, e mi sento libera.
I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore.
La vita è difficile, ma non è grave.
Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di d’individualismo malaticcio.
Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile.
E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi.
Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. »

(Etty (Esther) Hillesum)

Fonte: Diario, pagine 126-127, scritte il 29 giugno 1942, in piena occupazione dell'Olanda


Etty (Esther) Hillesum
(Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943)

Scrisse Il Diario ad Amsterdam, tra il 1941 e il 1943. Non lo sapeva, ma sarebbe stato  il diario degli ultimi due anni della sua vita. Etty fu una donna intelligente, brillante e ricca di interessi. Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ebbe anche la possibilità di salvarsi, ma decise, forte delle sue convinzioni umane e religiose, di condividere la sorte del suo popolo. Etty, i genitori e i fratelli Mischa e Jaap, furono internati tutti nel campo olandese di "transito” di Westerbork, dove fù impiegata come assistente sociale. Il 7 settembre 1943 tutta la famiglia, tranne Jaap, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz dove, due mesi dopo, trovò la morte insieme a i genitori e al fratello Mischa. 

L’ altro fratello, Jaap, invece perse la vita a Lubben in Germania il 17 aprile 1945 durante il viaggio di ritorno a casa, in Olanda. Il Diario venne pubblicato solo nel 1981.

Buona giornata a tutti :-)

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