«Donne e bambini si tolgano le scarpe, prima di entrare nella baracca. Infilate le calze nelle scarpe. Quelle dei bambini dentro i sandali, le scarpe o gli stivaletti. Ordine, mi raccomando». E di nuovo: «Portate nei bagni gioielli, documenti, denaro, asciugamano e sapone... Ripeto...».
Dentro la baracca femminile c’è la parrucchiera; nude, le donne vengono rasate a zero, alle più anziane tolgono la parrucca. È un momento strano, psicologicamente: le addette hanno poi sostenuto che di solito quella rasatura ante mortem convinceva le vittime che davvero sarebbero andate a lavarsi.
Le più giovani si tastavano il cranio e, sentendo qualche punta ispida, capitava che chiedessero un ritocco. Solitamente dopo la rasatura le donne erano più tranquille, tutte o quasi lasciavano la baracca con in mano un pezzo di sapone e un asciugamano piegato. Tra le più giovani qualcuna piangeva le belle trecce perdute. Perché le rasavano? Per illuderle? No, perché la Germania aveva bisogno dei loro capelli. Erano materia prima... Ho chiesto a diverse persone che cosa se ne facessero, i tedeschi, della montagna di capelli che rasavano a quei cadaveri ancora in vita.
Tutti i testimoni riferiscono che
cumuli enormi di capelli neri, biondi e color dell’oro, di riccioli e di trecce
venivano sottoposti a disinfezione, pressati nei sacchi e spediti in Germania
(…)
Gli uomini si spogliano fuori. Dal primo scaglione del mattino ne vengono scelti un centocinquanta – trecento tra i più forti e robusti: verranno usati per seppellire i cadaveri, e verranno uccisi, di norma, il giorno seguente. Gli uomini devono spogliarsi in tutta fretta, ma con ordine, riponendo per bene scarpe, calzini, biancheria, giacche e pantaloni.
A occuparsi della selezione degli indumenti è una seconda squadra,
i «rossi», cosiddetti per la fascia rossa che li distingue da coloro che si
occupano del «trasporto». Quanto è ritenuto degno di essere inviato in Germania
viene subito portato al deposito.
Nude, le vittime vengono condotte a
uno sportello, la «cassa», dove sono invitate a consegnare documenti e
preziosi. E la solita voce ipnotica grida: «Achtung! Achtung! Chiunque venga
scoperto a nascondere gioielli verrà ucciso! Achtung!».
…
Qui, alla «cassa», la svolta decisiva
– qui finisce la tortura della menzogna che tiene le vittime in uno stato
ipnotico di incertezza, in un delirio febbrile; nell’arco di qualche minuto si
passa dalla speranza alla disperazione, da visioni di vita a visioni di morte.
La tortura della menzogna era un elemento chiave nella catena di montaggio della
morte, facilitava il lavoro delle SS. Ma quando sopraggiungeva l’atto finale,
l’ultimo saccheggio di quei cadaveri ambulanti, la musica cambiava. E allora i
tedeschi spezzavano le dita per strappare gli anelli alle donne, o laceravano
loro i lobi per portarsi via gli orecchini.
Il tragitto dalla «cassa» al luogo
dell’esecuzione richiede qualche minuto in tutto. Spronate dai colpi, stordite
dalle grida, le vittime arrivano su un terzo piazzale e per un istante si
fermano, interdette.
Il silenzio sopraggiungeva quando le
porte delle camere a gas venivano chiuse. E le grida ricominciavano quando
arrivava un nuovo lotto di donne.
Due, tre, quattro, anche cinque volte
al giorno. Perché Treblinka non era un semplice luogo di morte. Era una
fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quelle della moderna
produzione industriale su larga scala.
***
Queste parole sono di Vasilij
Grossman, scrittore e giornalista sovietico, che nel 1944 entrò nel campo di
sterminio di Treblinka, dove poté toccare con mano la ferocia nazista.
Vestirsi da condannato a morte di un
lager nazista non è una provocazione.
Non è un modo per attirare
l’attenzione.
Non è una ragazzata.
Non è solo un gesto ignorante e
meschino.
È un insulto imperdonabile ai milioni
di uomini, donne, bambini, vittime della ferocia nazista e del buio della
ragione.
(La citazione è tratta da: Vasilij
Grossman, L'inferno di Treblinka, Adelphi, 2013)
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