Un uomo:
Mi sorprende un po' sentirle dire che il Pentagono è tanto importante per la nostra economia. Negli Stati Uniti è difficile trovare un elemento dell'industria ad alta tecnologia che non sia legato al sistema del Pentagono, che comprende la NASA, il dipartimento dell'Energia [che produce armi nucleari], tutto quell'apparato. In realtà, il Pentagono esiste sostanzialmente per questo, e per lo stesso motivo il suo budget resta praticamente immutato. Voglio dire che il bilancio del Pentagono oggi è più alto, in valore reale, di quanto fosse sotto Nixon e che quando, in anni recenti, è diminuito, ha avuto l'effetto, come suol dirsi, di "danneggiare l'economia". Per esempio, il budget del Pentagono ha iniziato a ridursi nel 1986, e nel 1987 gli stipendi dei lavoratori qualificati, in altre parole di chi aveva una laurea, hanno preso a calare. Prima di allora erano stati ridotti gli stipendi dei lavoratori non qualificati, ma quelli dei laureati iniziarono a scendere un anno dopo che il budget del Pentagono aveva cominciato a calare leggermente.
La ragione è che i laureati sono
ingegneri, lavoratori specializzati, manager e così via, cioè persone il cui
posto di lavoro dipende strettamente dall'intero sistema del Pentagono: perciò
una sia pur leggera flessione delle spese militari ebbe immediati riflessi sul
livello reale degli stipendi di quel settore della popolazione.
In realtà, se ricordiamo le discussioni sorte
alla fine degli anni quaranta, quando si iniziò a costruire il sistema del
Pentagono, scopriremo che erano molto rivelatrici. Quell'intero sviluppo va
considerato sullo sfondo di ciò che era appena successo. Negli anni trenta
c'era stata in tutto il mondo una mostruosa depressione e, a quel punto, tutti
capirono che il capitalismo era morto. Voglio dire che qualunque residua
fiducia la gente avesse nei suoi confronti - e già prima non era molta - a quel
punto era sparita, perché l'intero sistema capitalistico era appena collassato:
non c'era alcun modo di salvarlo così com'era. Bene, ogni paese ricco escogitò
più o meno lo stesso sistema per venirne fuori. Lo fecero indipendentemente
l'uno dall'altro, ma fecero ricorso più o meno allo stesso metodo: la spesa
statale, qualche tipo di spesa pubblica, quello che viene chiamato
"stimolo keynesiano". Fu questo a far uscire, alla fine, i paesi
dalla depressione. Nei paesi fascisti funzionò benissimo: ne uscirono molto
velocemente. In realtà tutti i paesi diventarono un po' fascisti; per
"fascismo" non intendo le camere a gas: mi riferisco a una
particolare forma di assetto economico che vede lo stato coordinare i sindacati
e le aziende, assegnando un ruolo importante alle grandi imprese. Il fatto che
quasi tutti fossero fascisti fu già allora sostenuto dalla corrente principale
degli economisti di scuola vebleniana [dal nome dell'economista americano
Thorstein Veblen]. Oggi - dicevano - tutti sono fascisti; l'unica variante è la
forma di fascismo che scelgono, e le forme dipendono dai modelli culturali del
paese.
Bene, negli Stati Uniti il fascismo
prese dapprima la forma del New Deal [i programmi legislativi varati negli anni
trenta per combattere la depressione]. Ma il New Deal era troppo limitato e non
sortì in realtà un grande effetto: nel 1939 la depressione restava ancora più o
meno ai livelli del 1932. Scoppiò allora la Seconda guerra mondiale e, a quel
punto, diventammo veramente fascisti: avevamo una società sostanzialmente
totalitaria, con un'economia dirigistica, controllo dei prezzi e dei salari,
assegnazione delle materie prime, tutto diretto da Washington. Le persone che
gestivano tutto questo erano per lo più dirigenti d'azienda, convocati nella
capitale per guidare l'economia durante lo sforzo bellico. E loro ebbero l'idea
giusta: funzionava. Così, durante la guerra, l'economia statunitense prosperò,
la produzione industriale giunse quasi a quadruplicarsi e uscimmo finalmente
dalla depressione.
Poi la guerra finì: che cosa sarebbe
successo? Bene, tutti pensavano che saremmo ripiombati nella depressione,
perché non c'era stato alcun cambiamento sostanziale; l'unico cambiamento era
stato il lungo periodo di stimolo dell'economia da parte del governo durante la
guerra. Perciò la domanda era: e adesso che succede? Be', ci fu effettivamente
un'impennata della domanda dei consumatori: moltissimi si erano arricchiti e
volevano comprare frigoriferi e altre merci. Intorno al 1947-48, però, la
domanda iniziò a calare e sembrò che fossimo sul punto di ripiombare nella
recessione. Se leggiamo quanto scrivevano allora economisti come Paul Samuelson
e altri sulla stampa economico-finanziaria, vediamo che in quel momento
sostenevano che l'industria avanzata, l'industria ad alta tecnologia, «non può
sopravvivere in un'economia della libera impresa competitiva e non
sovvenzionata», inevitabilmente.
Essi immaginavano che fossimo
destinati a tornare nella depressione, ma ormai conoscevano la risposta: gli
incentivi statali. E all'epoca avevano perfino una teoria a sostegno di quella
tesi, elaborata da Keynes: prima di allora avevano solo seguito il loro
istinto. Perciò c'era allora negli Stati Uniti un consenso generalizzato tra le
aziende e i grandi strateghi sul fatto che il governo doveva incanalare una
grande quantità di fondi pubblici nell'economia; ci si chiedeva solo come
farlo. Successe allora un fatto interessante... non fu un vero e proprio
dibattito, perché l'accordo era già raggiunto prima ancora di iniziare, ma
almeno fu posta la domanda: il governo deve preferire le spese militari o
quelle sociali? Bene, si chiarì immediatamente che le spese del governo
dovevano indirizzarsi al settore militare. Le ragioni non riguardavano
l'efficienza economica: nulla del genere. Si trattava di pure e semplici
ragioni di potere, come quelle che ho ricordato: le spese militari non
ridistribuiscono il benessere, non promuovono la democrazia, non creano un
elettorato popolare né incoraggiano la gente a inserirsi nei processi
decisionali.
Sono un regalo ai dirigenti d'azienda,
punto e basta. Sono una rete di protezione per le decisioni manageriali: «Qualunque
cosa tu faccia, qui c'è un cuscino per te». Non deve trattarsi necessariamente
di un'alta percentuale del ricavo totale, potrebbero essere pochi punti
percentuali, ma è una protezione molto importante.
L'opinione pubblica non deve venirlo a sapere.
Il primo segretario dell'Aeronautica, Stuart Symington, lo spiegò molto
chiaramente già nel 1948, quando disse: «Non dobbiamo usare la parola
"sovvenzioni": la parola da usare è "sicurezza"».
In altre parole, se volete assicurarvi che il
governo finanzi l'industria elettronica, quella aeronautica, i computer, la
metallurgia, la produzione di macchine utensili, la chimica e tutto il resto, e
non volete che i cittadini tentino di dire la loro in tutto ciò, dovete addurre
il pretesto di continue minacce alla sicurezza: minacce che possono essere
costituite dalla Russia, dalla Libia, da Grenada, da Cuba o da qualunque altro
paese. Il sistema del Pentagono serve soprattutto a questo: è un sistema che
assicura una particolare forma di dominio e di controllo. Ha funzionato ai fini
per i quali era stato progettato: non per offrire alla gente una vita migliore,
ma per "garantire un'economia in salute" nel senso comune
dell'espressione, cioè per assicurare profitti alle imprese. Ed è proprio
quello che fa, con grande efficacia. Perciò, vedete, gli Stati Uniti si giocano
molto nella corsa agli armamenti: serve al controllo interno, al controllo
dell'impero, a tenere in funzione l'economia. Sarà molto difficile riuscire a
superare questo ostacolo; penso che sia una delle cose più difficili da
cambiare per un movimento popolare, perché cambiando l'impegno del sistema del
Pentagono si influenzerà l'intera economia e il suo modo di funzionare. È molto
più difficile, per esempio, che non ritirarsi dal Vietnam. Quello era un
problema marginale per il sistema di potere. Questo è un problema centrale. In
effetti ho sostenuto per anni, con i miei amici fautori della necessità di
"convertire" l'economia dalla produzione militare alle spese sociali,
che dicevano cose prive di senso. Mi spiego. Non c'è bisogno di dire al mondo
degli affari: «Con i soldi che spendiamo per tutti questi aviogetti potremmo
costruire tutte queste scuole; non è mostruoso costruire gli aerei?». Non
dovete convincere di questo il capo della General Motors: lo sapeva
quarant'anni prima che qualcuno cominciasse a parlare di
"conversione", e proprio per questo ha voluto gli aeroplani. Non ha
senso spiegare a chi ha il potere che la "conversione" sarebbe meglio
per il mondo. Certo che sarebbe meglio. Ma a loro cosa importa? Lo sapevano già
molto tempo fa, e proprio per questo hanno imboccato la direzione opposta.
Vedete, questo sistema è stato progettato, dopo lunghe riflessioni di persone
consapevoli e intelligenti, per il particolare scopo al quale serve. Perciò
qualunque tipo di "conversione" dovrà necessariamente far parte di
una ristrutturazione completa della società, tesa a scalzare il controllo
centralizzato. Voglio dire che avrete bisogno di un'alternativa; non basta
limitarsi a tagliare il budget del Pentagono, perché così si otterrebbe solo il
collasso dell'economia che dal Pentagono dipende. Deve accadere qualcos'altro
se non si vuole tornare all'età della pietra. Si dovrà perciò creare in primo
luogo una cultura e una struttura istituzionale in cui i fondi pubblici possano
essere usati per soddisfare i bisogni sociali, le esigenze umane. Secondo me è
questo l'errore compiuto da molti fautori della "conversione": si
limitano a constatare un fatto ovvio, ma non pongono sufficiente attenzione
alla creazione delle basi per un'alternativa.
- Noam Chomsky -
da: Capire il potere - pagg 115-118