“D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i
Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il
paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni
estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che
ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è
mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese
fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di
distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina,
ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi
di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno,
Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a
strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno
russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma
da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia;
in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe
l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o
che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una
goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno
impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una
settimana prima le une e gli altri crepavano di sete.
Questa violenza del
paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto,
questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non
edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti
questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto
detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte
per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove;
tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così
condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di
animo.”
[G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958]
" Noi siamo dei bianchi quanto è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia.
Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra, ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."
" ...Stia a sentirmi, Chevalley, se si fosse trattato di un segno di
onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei
stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro
dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare
l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un
timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora
esistono.
" Ma allora, principe, perchè non accettare?
" Abbia pazienza Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare il capello in quattro.
Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli...
...
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna cui abbiamo dato il "là" ; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra, ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."
( Giuseppe Tomasi di Lampedusa in " Il Gattopardo")
" Ma allora, principe, perchè non accettare?
" Abbia pazienza Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare il capello in quattro.
Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli...
...
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna cui abbiamo dato il "là" ; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra, ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."
( Giuseppe Tomasi di Lampedusa in " Il Gattopardo")
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