domenica 29 settembre 2024

Babij Jar - Asatolij Vasil'evič Kuznecov (Oggi 29 settembre ricordiamo la strage del 1941)

 INTROIBO

Il 28 settembre 1941 i Tedeschi ordinarono agli ebrei di Kiev di presentarsi il giorno successivo nella zona dei Cimiteri pena la fucilazione. Alle prime luci dell'alba del 29 settembre una grande folla si radunò nel luogo stabilito. Le famiglie avevano cotto il pane per il viaggio. Noleggiato carri e calessi. I vecchi procedevano sorreggendosi l’un l’altro. Le madri tenevano in braccio i neonati. Spingevano le carrozzine. Trascinavano sacchi gli ebrei di Kiev, casse e valigie. La folla procedeva come la corrente di un fiume. Sui marciapiedi tedeschi in pattuglia. Questa processione di morte durò tre giorni e tre notti. La città ammutolì. Migliaia di persone, soprattutto vecchi, donne e bambini avanzavano verso Babij Jar. 

Ah Signore quanti bambini. I vecchi presto non ce la facevano più ed erano sorretti dai figli, dai parenti. Avanzavano in silenzio. Come condannati a morte. Poi alla fine della strada, delle scrivanie come in un ufficio postale. C'era un posto di blocco prima di un burrone orrendo. Documenti e oggetti di valore venivano ritirati. Per terra si alzò presto uno strato di carte d’identità, di passaporti. 

I tedeschi obbligavano tutti a spogliarsi. Via i bagagli, i cappotti, le scarpe. In un minuto restavano tutti nudi e indifesi. Non c'era nessuna distinzione fra uomini donne bambini. Poi a tutti sparavano alla nuca e facevano cadere i corpi in un dirupo e tutti si accorsero all'improvviso che cos’era Babij Jar.

da: Babij Jar , editore Adelphi

 

Vostro onore, non riuscivo ancora a comprendere quello che stava succedendo quando imboccai un lungo passaggio tra due file di soldati che tenevano in mano manganelli di gomma e grossi bastoni. Se qualcuno indugiava gli strappavano a forza i vestiti e lo picchiavano a sangue, ubriachi di odio e di rabbia, in una sorta di frenesia incontenibile. Non si vedeva bene che cosa ci fosse oltre quella scoscesa parete sabbiosa ma era da là che provenivano gli spari e le raffiche della mitraglia. Guardai giù e mi vennero delle vertigini e dei conati di vomito nello scorgere un mare di corpi insanguinati, accatastati uno sull’altro, come i pezzetti di un puzzle abbandonati da un bambino capriccioso. Un istante dopo ero in quella vasca di sangue, un odore fetido e nauseante mi costrinse ad intuire che ero ancora viva anche se rischiavo di morire soffocata dai corpi che venivano continuamente catapultati giù insieme a tonnellate di sabbia. Da lontano riuscii a scorgere tedeschi e polizei ucraini che selezionavano e ammucchiavano oggetti, altri uomini in divisa, dopo aver stuprato due ragazze, le pugnalarono velocemente e le gettarono giù nella voragine come fossero bambole di pezza. Le immagini cominciarono a farsi indistinte, immaginai di avere ancora accanto i volti di mio padre e mia madre che mi dicevano: “Bambina mia, andiamo a pagare il nostro ultimo debito a Dio”. Sono trascorsi cinque anni vostro onore, ed io ho provato a raccontare quell’orrore, ho tentato di combattere con i miei demoni e con le mie crisi cardiache, ho denunciato quell’inferno a cui sono miracolosamente scampata ma nessuno mi crede, sento intorno a me lo stesso astio e la stessa antica diffidenza nei confronti degli sporchi giudei e allora… tanto vale confidare i miei incubi solo alle marionette del Teatro di Kiev dove lavoravo come attrice e burattinaia, magari per provare a convincere me stessa che Babij Jar era stato un gioco, una recita di marionette vocianti e pupazzi dipinti di un rosso acceso che, chissà perché, mi avevano turbata e spaventata….- Dina –

da: Babij Jar , editore Adelphi



Sul bordo del dirupo mi strapparono di mano la mia borsa. Mi presero a bastonate e subito avevo il sangue sul cappotto. 

Mi dissero di spogliarmi e un cane mi morse un braccio mentre cadevo nudo sui primi corpi abbattuti come agnelli. In basso vidi uno strato di corpi su cui gettavano la terra e le persone ancora si muovevano. Mi hanno sparato alla tempia senza uccidermi nel trambusto colossale. Caddi nel vuoto come un sasso. Mi ritrovai sotto un carico di corpi sanguinanti e non potevo muovermi. 

I tedeschi scendevano e sparavano a qualsiasi cosa si muoveva. Avevo una bambina morta sulla faccia. Ero nascosto sotto i suoi capelli rossi. Trattenevo il respiro. Un soldato mi calpestò il petto credendomi morto poi piovve terra per un tempo infinito . Respiravo sotto la schiena di una donna. Poi venne la sera e una luna beffarda splendeva sul massacro. Si sentivano gemiti, lamenti e subito dopo colpi di pistola. Nel silenzio dell'alba strisciai fuori dai corpi come una serpe insanguinata. Ero magro, agile allora tanto che cominciai a risalire il dirupo di corpi aggrappandomi a spalle, teste, braccia. Trovai una catasta di cappotti, ne presi uno militare e mi gettai in un buco aperto in fondo alla collina. Mi nascosi per riprendere le forze. Avevo nelle orecchie la voce di una bambina che diceva -ma perché mi gettate della sabbia negli occhi in questo modo?-

da: Babij Jar , editore Adelphi



Quando mio padre mi disse che saremmo partiti la mia gioia fu grande. Volevo andarmene da Kiev. La gente intorno a me non sorrideva più e non era più un’abitudine guardarsi negli occhi. Passeggiando per le strade della città, mi accorsi che molti mi squadravano, mi osservavano dall’alto verso il basso con una strana espressione che non sono riuscita a decifrare, ma che di sicuro mi metteva una certa angoscia. Così diedi un leggero strattone alla giacca di mio padre e lo guardai negli occhi come per chiedere: “Perché? Cos’ho che non va?”. Lui distolse subito lo sguardo e non rispose. Mi accorsi solo dopo che una lacrima gli aveva rigato la guancia. 
La notizia della partenza aveva acceso un lume di speranza negli occhi di molte persone. Tanti erano euforici. Volevano ripartire da zero in un’altra città. La tristezza che si respirava nel nostro quartiere, adesso si era dissolta del tutto, lasciando spazio alla spensieratezza, ai pianti di gioia. Osservando gli altri appartamenti dalla finestrella della cucina, il naso appiccicato al vetro, mi accorgevo di come l’impazienza crescesse nelle persone in concomitanza con l’ottimismo che nei loro occhi non avevo mai visto e di come ognuno si dedicasse con attenzione e scrupolo alla preparazione dei propri bagagli. 
Io non mi preoccupavo molto di cosa mi sarebbe stato utile, mi soffermavo piuttosto ad immaginare la mia vita nuova di zecca, perciò andò a finire che scaraventai in una borsa le prime cose che mi capitarono sotto mano, per poi tornare ad esaminare i comportamenti altrui. 
Il giorno della partenza era il 29 settembre e noi fummo tra i primi a partire. 
A svegliarci fu il trambusto che c’era per strada: gente che si accalcava per raggiungere la prima fila, amici e parenti che si abbracciavano in segno di riconoscenza e bambini che schiamazzavano e correvano facendo infuriare i genitori. Uscimmo di casa giusto in tempo per avvertire il grido di un soldato vestito di tutto punto e con un fucile a tracolla, il quale ci ordinò di fare silenzio, disporci in file ordinate e seguirlo. Il cuore mi batteva forte per l’emozione. Ci incamminammo con un certo ritmo e col passare dei minuti mi tranquillizzai. Guardavo le persone che mi trovavo intorno: un uomo di mezza età, barba e capelli grigi, con una borsa di cuoio ed un enorme orologio da polso; due giovani innamorati che camminavano mano nella mano, rallentando a volte per scambiarsi carezze e occhiate piene d’amore . 

Pensai: “Chissà se mi innamorerò mai anch’ io…”. Avevamo già percorso tanta strada e qualcuno iniziò ad essere inquieto per il proprio destino. Ad un certo punto lo stesso soldato che ci aveva dato il segnale della partenza ci arrestò e iniziò ad urlare parole al vento che non capivo ma quando mi voltai verso mio padre per chiedergli spiegazioni, era come pietrificato. 

Vidi l’intera folla trasformarsi in un ammasso di scarafaggi che si buttavano l’uno addosso all’altro per cercare una via di fuga da non so che cosa, le madri in lacrime spingevano i figli più lontano possibile gridando loro di fuggire e di non voltarsi mai, di non preoccuparsi per loro perché prima o poi si sarebbero rivisti. Si levò un coro di voci terrorizzate che mandò in frantumi qualcosa dentro di me, una parte remota in fondo al mio stomaco. L’ultima immagine che vedo con chiarezza è mio padre cadere in ginocchio e abbracciarmi come non aveva mai fatto prima. Percepii il battito del suo cuore attraverso la pelle e mi sentii felice un’ultima volta, finché lui non mi fu strappato via insieme alla mia stessa vita. Il nostro viaggio era terminato, eravamo arrivati a destinazione. Ora ne comprendo il significato. Mi mancherai.

da: Babij Jar , editore Adelphi

                                          Monumento in ricordo della strage

Io, Asatolij Vasil'evič Kuznecov, autore di questo libro, nato il 18 agosto 1929 nella città di Kiev. Mia madre è ucraina, mio padre russo. Sul mio passaporto interno era scritto “nazionalità russa”.
Sono cresciuto a Kurenëvka, alla periferia di Kiev, non lontano dal grande burrone il cui nome al tempo era noto solo agli abitanti del posto: Babij Jar.
Come gli altri dintorni di Kurenëvka, era un luogo dei nostri giochi, un luogo, come si dice, della mia infanzia.
Poi di colpo, in un solo giorno, diventò famoso.
Per più di due anni fu zona proibita, con un recinto di spinato ad alta tensione, con un campo di concentramento, dei cartelli ammonivano che si sarebbe aperto il fuoco contro chiunque si fosse avvicinato............

l'autore: Asatolij Vasil'evič Kuznecov


Buona giornata a tutti :-)