Un chassid del Veggente di Lublino
decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro.
Ma il pomeriggio del
venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire.
Individuata
una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per
un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di
quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana.
Se ne andò fiero di
aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se
stesso: “E' meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio
cuore soccomba all’orgoglio”.
Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e
stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era
scomparsa.
Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro.
“Un
rammendo!”, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia.
Quando da giovane
ascoltai per la prima volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la
quale il maestro aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al
massimo per realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e
supera la tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio
sfavorevole dal suo maestro.
Indubbiamente il primo inciampo veniva da un
potere del corpo sull’anima, cioè da un potere che bisognava spezzare, ma il
secondo nasceva dalla più nobile delle motivazioni: meglio fallire che
soccombere all’orgoglio per amore del successo!
Com’è possibile essere
rimproverati per una simile lotta interiore?
Non significa esigere troppo
dall’uomo?
E stato solo molto più tardi (ma già un quarto di secolo fa ... ),
cioè all’epoca in cui mi ero messo a narrare a mia volta questo racconto della
tradizione, che ho capito che qui non si tratta assolutamente di esigere qualcosa
dall’uomo. Lo zaddik di Lublino, per l’appunto, non aveva la reputazione di
essere un sostenitore dell’ascesi, e il suo discepolo non aveva certo
intrapreso quello sforzo con l’intenzione di fargli cosa gradita, ma piuttosto
perché sperava di raggiungere così un grado più elevato dell’anima; d’altronde
non aveva forse ascoltato, dalla bocca del Veggente stesso, che il digiuno può
servire a questo fine nella fase iniziale dello sviluppo personale e nei
successivi momenti critici?
Le parole che il maestro rivolge ora al discepolo,
dopo aver chiaramente osservato l’evolversi dell’azzardato tentativo con
autentica comprensione, significano senza alcun dubbio questo: “In questo modo
non è possibile raggiungere un grado più elevato”. Mette in guardia il discepolo
su una cosa che inevitabilmente gli impedisce di realizzare il suo progetto; e
questa ci appare chiaramente: oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi
indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è
opinabile. L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare
un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata. Ma di
nuovo ci si presenta l’interrogativo di sapere se questo alle volte non
significhi trattare con eccessiva durezza un uomo. Le cose infatti vanno così
nel nostro mondo: uno possiede - “per natura” o “per grazia”, secondo come
preferiamo esprimerci - un’anima unitaria, un’anima d’un sol getto e, di
conseguenza, realizza opere unitarie, d’un sol getto, proprio perché la sua anima,
così fatta, gliele ispira e gliele rende possibili; un altro invece possiede
un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che naturalmente determina la
sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire dipendono dagli
impedimenti e gli inciampi dell’anima, l’inquietudine di questa si manifesta
nell’inquietudine di quello.
Un uomo di questo genere cosa può mai fare se non
sforzarsi di superare le tentazioni che gli si presentano sul cammino verso la
meta prefissata?
Cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso
dell’azione, “riprendersi” - come si usa dire -, cioè raccogliere la propria
anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre
nuovamente verso la meta, pronto inoltre - com’è il caso del chassid del nostro
racconto -, nel momento in cui l’orgoglio lo tenta, addirittura a sacrificare
la meta pur di salvare l’anima?
Se riesaminiamo ancora una volta il nostro
racconto a partire da queste domande, scopriamo finalmente l’insegnamento
contenuto nella critica del Veggente. E l’insegnamento secondo il quale l’uomo
è in grado di unificare la propria anima.
L’uomo che ha un’anima molteplice,
complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo
di quest’anima - la forza divina che giace nelle sue profondità - è in grado di
agire su di essa e trasformarla, può legare le une alle altre le forze in
conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di
unificarla.
Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda
un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in
modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto.
E
proprio questo che il Veggente rimprovera al chassid: di aver corso l’azzardo
con un’anima non unificata; nel corso dell’opera, infatti, l’unificazione non
riesce. Ma non bisogna nemmeno immaginarsi che l’ascesi possa provocare
l’unificazione: può purificare, può anche concentrare, ma non può far sì che il
risultato così ottenuto si mantenga fino al conseguimento della meta, non può
proteggere l’anima dalla sua propria contraddizione.
C’è tuttavia un aspetto
che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva.
Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da
difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la
propria unità non può mai raggiungerla pienamente.
Però ogni opera che compio
con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di
una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche
se con diverse deviazioni, a un’unità più costante di quella antecedente.
Alla
fine si giunge così a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima
perché il suo grado di unità è ormai cosi elevato che essa supera la
contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare
vigilanti, ma è una vigilanza serena.
In uno dei giorni di Chanukkà, Rabbi
Nahum, figlio del Rabbi di Rizin, entrò all’improvviso nella ieshivà e trovò
gli studenti che giocavano a dama, com’è d’uso in quei giorni. Quando videro
entrare lo zaddik, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse
benevolmente la testa e chiese: “Ma conoscete anche le leggi del gioco della
dama?”. E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da sé:
“Vi dirò io le leggi del gioco della dama:
Primo: non è permesso fare due passi
alla volta.
Secondo: è permesso solo andare avanti
e non tornare indietro.
Terzo: quando si è arrivati in alto,
si può andare dove si vuole”.
Ma significherebbe fraintendere
completamente il significato di “unificazione dell’anima” il tradurre il
termine “anima” diversamente da “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme.
L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le
membra del corpo lo siano anch’esse.
Il versetto della Scrittura: “Tutto ciò
che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze!” il Baal-Shem lo
interpretava così: “quello che si fa, va fatto con tutte le membra”, cioè: bisogna
coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare
fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme,
allora la sua opera è opera d’un sol getto.
- Martin Buber -
da: Il cammino dell'uomo,
Qiqajon, 1990
Buona giornata a tutti. :-)