Meditare vuol dire pensare. Eppure una
buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli
«affetti», molto più che una serie di «atti» per cui si passa.
Nella preghiera meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con
le labbra, ma in certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è
quindi esattamente una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono
nel cuore — è il volgere a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione,
il corpo, la mente e lo spirito. Ogni buona meditazione è una conversione di
tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una
specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma
un interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle
preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca
gente si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole
questo slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che
esso richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di
esperienza, e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette
in agitazione con sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e si va a
finire in una specie di incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie
di routines che aiutano a passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di
semicoma che, si spera, può essere giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare
esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili
inizi della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto
abbastanza sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di
rivendicare il privilegio di «pregare non facendo nulla».
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale «non si faccia nulla», o
«non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non
si sente, non si percepisce o non si pensa nulla.
Un grano di sale, Thomas Merton (27)
Che cosa significa conoscere e
sperimentare il mio «nulla»?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori,
che da essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da
quello che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile
illusione, una pretesa umiltà che nel dire «non sono nulla» intende in effetto
affermare vorrei essere diverso da quel che sono».
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed
incapacità, ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il
nostro «nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è
buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e
apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità morale e metafisica nei
confronti di Dio. Per amare così il nostro «nulla» non dobbiamo ripudiare
niente di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo, nulla di ciò che
siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona:
buona nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra
deficienza, perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e
spirituale, attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama
quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
da “Pensieri nella solitudine” di Thomas Merton (1915-1968) – 31 –
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di continuo a esaminarla e a ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico. La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo vicini a Dio perché allora
l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati
nell’ansietà e nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma
perché non trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non
possedere niente che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di
particolare che meriti di essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci
riposiamo in Colui che è tutta la nostra speranza.
da “Pensieri nella solitudine” di Thomas Merton (1915-1968) – 31
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