All’ora solita cioè alle 19 meno un quarto
nell’area cosidetta fabbricabile fra via Marocco e via Casserdoni, il volpino
Leo vide avanzare il mastino Tronk tenuto per la catena dal professore suo
padrone.
Il bestione aveva le orecchie dritte come
sempre e scrutava il ristrettissimo orizzonte di quel sudicio prato fra le
case.
Egli era l’imperatore del luogo, il tiranno.
Eppure il vecchio volpino
pieno di risentimenti subito notò che non era il Tronk di un tempo, neppure
quello di un mese prima, neppure il formidabile cagnaccio che aveva visto tre o
quattro giorni fa.
Era un niente, il modo forse di appoggiare le
zampe, o una specie di appannamento dello sguardo, o una incurvatura della
schiena, o l’opacità del pelo o più probabilmente un’ombra – l’ombra grigia che
è il segno terribile! – la quale gli colava già dagli occhi fino al bordo
cadente delle labbra.
Nessuno certo, neppure il professore, si era
accorto di questi segni piccolissimi. Piccolissimi? Il vecchio volpino che
oramai ne aveva viste a questo mondo, capì, e ne ebbe un palpito di perfida
gioia. “Ah ci sei finalmente” pensò. “Ci sei?”
Il mastino non gli faceva più
paura.
Si trovavano in uno di quegli spazi vuoti
aperti dai bombardamenti aerei della guerra decorsa, verso la periferia, fra
stabilimenti, depositi, baracche, magazzini. (Ma a breve distanza si ergevano i
superbi palazzi delle grandi società immobiliari, a settanta-ottanta metri
sopra il livello dell’operaio del gas intento a sistemare la tubazione in
avaria e del violinista stanco in azione fra i tavolini del Caffè Birreria
Esperia là sotto i portici, all’angolo.)
Demoliti i moncherini superstiti dei
muri, a ricordare le case già esistite non restavano qua e là che dei tratti di
terreno coperti di piastrelle, il segno della portineria forse, o cucina a
pianterreno o forse anche camera da letto di casa popolare (dove un tempo di
notte palpitarono speranze e sogni e forse un bambino nacque e nelle mattine
d’aprile, nonostante l’ombra tetra del cortile, di là usciva un canto ingenuo e
appassionato di giovanetta; e alla sera, sotto una lampadina rossastra, gente
si odiò o si volle bene).
Per il resto, lo spazio era rimasto sgombro e sùbito,
per la commovente bontà della natura così pronta a sorridere se appena le
lasciamo un po’ di spazio, si era andato ricoprendo di verde, erba, piantine
selvatiche, cespugli, a similitudine delle beate valli lontane di cui si
favoleggia.
Tratti di prato vero, coi loro fiorellini, avevano perfino tentato
di formarsi, dove stanchi noi distenderci, le braccia incrociate dietro il
capo, a guardare le nuvole che passano, così libere e bianche, sopra le
soperchierie degli uomini.
Che cosa li aveva sbaragliati quando già
stavano assaporando il sangue e la vittoria? Perché si ritiravano? Il mastino
tornava a far loro paura?
Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe
e nuova che dentro di lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi
come un alone infetto.
I tre avevano intuito che a Tronk doveva
essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di
addentare un cane vivo. E invece l’odore insolito del pelo, forse, o del fiato,
e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro.
Perché le
bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono al più lieve segno
l’avvicinarsi della presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio.
E il
lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità
recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.
I nemici si sono dileguati. è solo, adesso.
Limpidi e puri nella maestà del vespero si sollevano intanto dalla terra,
paragonabili a fanfare, i muraglioni vitrei dei nuovi palazzi e il sole che
tramonta li fa risplendere e vibrare come sfida, sullo sfondo violetto della
notte che dalla opposta parte irrompe.
Essi proclamano le caparbie speranze di
coloro che, pur distrutti dalla fatica e dalla polvere, dicono “Sì, domani,
domani”, di coloro che sono il galoppo di questo mondo contristato, le
bandiere!
Ma per il satrapo, il sire, il titano, il corazziere, il re, il
mastodonte, il ciclope, il Sansone non esistono più le torri di alluminio e
malachite, né il quadrimotore in partenza per Aiderabad che sorvola rombando il
centro urbano, né esiste la musica trionfale del crepuscolo che si espande pur
nei tetri cortili, nelle fosse ignominiose delle carceri, nei soffocanti cessi
incrostati d’ammoniaca.
Egli è intensamente fisso a quell’oasi stenta
e con gli sguardi la divora.
Il sangue che aveva cominciato a gocciolare da una
lacerazione al collo si è fermato coagulandosi. Però fa freddo, un freddo
atroce.
Per di più è venuta la nebbia, lui non riesce più a vedere bene.
Strano, la nebbia in piena estate.
Vedere.
Vedere almeno un pezzo della cosa
che gli uomini usano chiamare verde: il verde del suo regno, le erbe, le canne,
i miseri cespugli (i boschi, le selve immense, le foreste di querce e antichi
abeti).
Il professore è di ritorno e si consola
vedendo il lupo e gli altri due barabba che si allontanano spauriti. “Eh il mio
Tronk” pensa orgoglioso. “Eh, ci vuol altro!” Poi lo vede laggiù seduto,
apparentemente quieto e buono.
Un cuccioletto era, quattro anni fa soltanto,
che si guardava gentilmente intorno, tutto doveva ancora cominciare, certo
avrebbe conquistato il mondo.
L’ha conquistato.
Guardatelo ora, grande e
grosso, il cagnazzo, petto da toro, bocca da barbaro dio azteco, guardatelo
l’ispettore generale, il colonnello dei corazzieri, sua maestà!
Ha freddo e
trema.
” Tronk! Tronk! ” lo chiama il professore.
Per la prima volta il cane non risponde. Nei sussulti del cuore che rimbomba,
pallido del terribile pallore che prende i cani i quali erroneamente si pensa
che pallidi non possano diventare mai, egli guarda laggiù, in direzione della
foresta vergine, donde avanzano contro di lui, funerei, i rinoceronti della
notte.
- Dino Buzzati -
da; "Sessanta racconti" di Dino Buzzati, prima uscita 1958, edito da Mondadori, 1994
Buona giornata a tutti. :-)
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