Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.
Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia.
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove.
Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora.
Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero.
I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là.
Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.
Due uomini stavano, l'uno dirimpetto
all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a
cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e
l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il
portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva
distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero
sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un
enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di
cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,
cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava
fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran
guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e
lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de'
bravi.
Che i due descritti di sopra stessero
ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più
dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che
l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso,
alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un
tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando
la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli
s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come
se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e,
vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri.
Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche
uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un
rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche
vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza
lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per
raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la
faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda
dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno.
Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più
modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi,
o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti
di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro
che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta,
compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo
per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse
mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. – Signor curato, – disse un di que'
due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa
comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò
spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
– Lei ha intenzione, – proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di
chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, – lei ha
intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
– Cioè – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. Lor signori son
uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato
non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi e poi, vengon da noi, come
s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.
– Or bene, – gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, –
questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di
chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi
ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me, vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca...
– Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci
metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo
avvertito... lei c'intende.
– Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
– Ma, – interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin
allora, – ma il matrimonio non si farà, o...
– e qui una buona bestemmia,
– o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...
– un'altra bestemmia.
– Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor curato è un uomo che sa
il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male,
purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro
padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale
notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e
accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: – se mi
sapessero suggerire...
– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un
riso tra lo sguaiato e il feroce.
– A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le
abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel
tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor
don Rodrigo?
– Il mio rispetto...
– Si spieghi meglio!
- Disposto... disposto sempre all'ubbidienza
- E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o
un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato
più serio.
– Benissimo, e buona notte, messere, – disse l'un d'essi, in atto di partir col
compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per
iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative.
– Signori – cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più
dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono,
cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio
rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due
stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo
l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio,
quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era
toccato di vivere.
- Alessandro Manzoni -
da: "I Promessi Sposi"
Buona giornata a tutti :-)