litanie delle paure
[…] Paura del proprio simile.
Paura del vicino di casa.
Paura di chi mette in discussione i nostri consolidati sistemi di tranquillità,
se non di egemonia.
Paura dello zingaro.
Paura dei terzomondiali. […]
Paura di
uscire di casa.
Paura della violenza.
Paura della guerra. […]
Paura di non
farcela.
Paura di non essere accettati.
Paura di non essere più capaci di
uscire da certi pantani nei quali ci siamo infognati.
Paura che sia inutile impegnarsi.
Paura che, tanto, il mondo non possiamo cambiarlo noi.
Paura che ormai i giochi
sian fatti… Quante paure!
litanie delle speranze e
dell’impegno
Ebbene di fronte a questo quadro così allucinante di
paure umane, che cosa ci dice oggi il Signore? […] Rivolge a ciascuno di noi la
stessa esortazione che l’angelo rivolse alla Vergine dell’Avvento e
dell’Attesa. «Non temere, Maria».
Non aver paura, Chiesa.
Vedete: paura ha la stessa
radice di pavimento.
Viene dal latino «pavére». «Pavere» significa battere il
terreno per livellarlo. Anche terrore ha la stessa radice
di terra.
Paura, quindi, è la conseguenza dell’essere battuto,
appiattito, livellato, calpestato.
Ora, che cosa mi dice il Signore di fronte a queste
paure: rimani lì steso sul pavimento? Rimani appiattito atterrato? No! Mi dice
la stessa cosa che ha detto a Maria: «non temere».
E adopera due verbi bellissimi: alzatevi e levate il
capo.
Sono i due verbi dell’Avvento. Sono le due luci che ci
devono accompagnare nel cammino che porta al Natale.
Alzarsi significa credere che il Signore
è venuto sulla terra duemila anni fa, proprio
per aiutarci a vincere la rassegnazione.
Alzarsi significa riconoscere che se le nostre braccia si
sono fatte troppo corte per abbracciare tutta intera la speranza del mondo, il
Signore ci presta le sue.
Alzarsi significa abbandonare il pavimento della
cattiveria, della violenza, dell’ambiguità, perché il peccato invecchia la
terra.
Alzarsi significa, insomma, allargare lo spessore della
propria fede.
Ma alzarsi significa anche allargare lo spessore
della speranza, puntando lo sguardo verso il futuro, da dove Egli un
giorno verrà nella gloria per portare a compimento
la sua opera di salvezza.
E allora non ci sarà più pianto, né lutto, e tutte le
lacrime saranno asciugate sul volto degli uomini.
E levare il capo che cosa
significa?
Fare un colpo di testa. Reagire. Muoversi.
Essere convinti che il Signore viene ogni giorno,
ogni momento nel qui e nell’ora della storia, [e] viene come ospite velato. E,
quindi, saperlo riconoscere nei poveri, negli ultimi, nei sofferenti.
Significa in definitiva: allargare lo spessore della carità.
Ecco il senso di questo Avvento di solidarietà, ben
espresso dall’augurio fortissimo che S. Paolo ci ha formulato nella seconda
lettura «il Signore vi faccia crescere nell’amore vicendevole e verso tutti».
Verso tutti. Senza esclusione di nessuno.
[…] accanto ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti, ai
malati cronici, agli handicappati, agli anziani, ai malati terminali, ai
dimessi dal carcere e dai manicomi… per condividerne tempo, gioie e speranze.
[…] accanto agli immigrati, ai migranti, ai terzomondiali, non soltanto dando
loro un letto e la buona notte, ma incalzando soprattutto le pubbliche
istituzioni perché i provvedimenti di legge siano meno disumani delle norme
vigenti. […]
Vissuto così, l’Avvento non sarà il contenitore delle
nostre paure, ma l’ostensorio delle nostre speranze.
+ don Tonino Bello, Vescovo
[Antologia degli Scritti, Vol. 2, pagg. 177-183]
[…] Ogni momento il Signore compare come ospite velato.
Avete ascoltato – dice Elia – il Signore è venuto ma non lo hanno riconosciuto.
Il problema è del «riconoscimento».
Per noi conoscere Gesù non è poi tanto difficile: lo
conosciamo nella Liturgia, nella Bibbia, negli studi di Teologia, nelle nostre
meditazioni, nel Tabernacolo; conosciamo il suo pensiero, la sua parola, la sua
opera.
Il problema è «riconoscere» che è molto più difficile di
conoscere, perché bisogna sempre togliere il muro d’ombra, dice Ungaretti nella
sua poesia «la Madre».
Il nostro corpo è come il muro d’ombra, quando il cuore
si fermerà, cadrà il muro d’ombra e davanti al Signore comparirà l’essere
profondo della nostra persona.[…]
Sarebbe un guaio se non riconoscessimo il Signore che
viene.
Se saremo sul passo degli ultimi, se cadenzeremo il
nostro passo con gli ultimi, ci sarà più facile attardarci con gli ultimi;
mentre si cammina insieme, aiutando coloro che viaggiano con noi, si ha anche
la possibilità di dire: «Sei tu Signore che compari sotto la specie dell’uomo,
sacramento di Te, sotto le specie consacrate che sono costituite dal corpo e
dal sangue del nostro fratello».
Ed è una chiamata che erompe oggi dal cuore della storia…
+ don Tonino Bello, Vescovo
[Antologia degli Scritti, Vol. 2, pagg. 177-183]
in principio è la paura
[…] La catastrofe non è soltanto l’evento ultimo e
conclusivo, è un processo. Va letta come un processo che investe le cose e le
distrugge come una alluvione segreta che porta morte. E’ un fatto che va
constatato, non sfuggendo all’evidenza creandoci piccole isole di sicurezza,
come durante una alluvione, mentre l’acqua sale, si sta tutti addossati
nell’ultimo isolotto rimasto indenne dall’acqua. L’acqua arriva anche lì. Tutto
sommergerà se noi ci affidiamo alla falsa solidità delle cose acquisite. Il
«principio di morte» – direbbero gli psicanalisti – entra e prevale.
Allora, una volta che noi ci troviamo – come dice il
Signore – a dover vivere con vigilanza, cosa dobbiamo fare? Io credo che il
nostro primo dovere sia di non fingere falsa sicurezza, ma di farci invadere
dalla paura per ciò che essa ha di giusto e di razionale: sentirla dentro di
noi. E c’è un modo, che appartiene all’antica pedagogica cristiana, anzi, oso
dire, umanistica, ma che è stato un po’ abbandonato. Cioè: noi abbiamo tutti,
nel nostro essere personale, il modo di verifica della catastrofe: ed è la
nostra morte. La morte non è solo un evento biologico di cui naturalmente
abbiamo paura, ma è un evento cosmico, perché il mondo acquista senso, per
ciascuno di noi, nel suo angolo di vita personale; e per quanto accettiamo le
spiegazioni oggettive e collettive, guai a noi se stacchiamo l’ancora dalla
profondità del nostro essere: allora ci alieniamo, passiamo tutta la vita a
parlare con categorie universali e rimaniamo lontani da noi stessi. Ma la paura
verrà all’improvviso.
Questo è ciò che dice il Signore quando parla del «cuore
appesantito dalle dissipazioni» C’è una dissipazione di tipo intellettuale,
anche. Ed è la dissipazione di tipo intellettuale quella che ci porta sempre a
mettere tra parentesi «la catastrofe» che ci riguarda. […]
La fede ci dà la possibilità di un altro discorso. Il
Signore allude a questa posizione là dove dice: «Alzatevi e levate il capo,
perché la vostra liberazione è vicina» […] di là di quei processi catastrofici
non c’è il vuoto, la cifra senza spiegazione: per noi c’è l’alleanza. C’è
l’impegno dall’altra parte. Il nostro è il Dio della Promessa. […] E allora, se
c’è questa promessa che si è attuata nel figlio dell’uomo, il mio atteggiamento
non è più di paura invincibile, perché per quanto passino il cielo e la terra,
c’è qualcosa che non passa: appunto la Parola che la fede schiude dentro come
un fiore sempre vivo.
C’è un modo – per così dire – di vivere dentro la
tragedia della fine e insieme di scontarla in noi. Viverla senza finzione e
insieme superarla in attesa di cose nuove che devono venire. Se la nostra
consuetudine con la Parola di Dio non è occasionale ma strutturale, è una
specie di ritmo interno che si intreccia col battito del cuore, queste cose noi
le vediamo nascere.
E allora la nostra scelta di fede sarà non quella di
piangere sulle catastrofi ma quella di allearci con le cose nuove in cui
traluce l’adempimento della Promessa di Dio. […] perché Egli è Colui che viene.
Il giorno del Signore viene, non appartiene al nostro calendario passato, è una
dimensione del futuro che irrompe, appunto è un adventus, è qualcosa che
viene verso di noi. Allora la fede consiste nel discernimento di questo
processo antitetico al successo della catastrofe che è processo di vita.
Consiste nell’allearsi ai nuovi segni di vita.
Prima di essere una morale, la fede è discernimento, è un
saper cogliere la realtà che nasce, è un passo verso ciò che nasce e cresce.
Questo è il modo di incontrare Dio. […] E quando la nostra vita si è legata,
con questo nesso indissolubile, al processo del Dio che viene, allora siamo
liberi dalla paura.
Infatti, che cosa può avvenire poi? Cosa può avvenire che
spezzi questa certezza? Niente può avvenire!
All’interno di una vera comunità
cristiana non c’è la paura di esser incompresi, perseguitati, vittime della
storia. […]
Non staremo a piangere sul mondo che ci perseguita: staremo qui ad
allevare il germoglio che è nato; ad esser pronti – in qualunque parte del
pianeta – a scommettere che per la promessa di Dio, adempiuta in Cristo,
la morte sarà vinta.
E questa certezza va pagata quotidianamente, non spesa
nelle orazioni domenicali: va scontata giorno per giorno nelle scelte.
padre Ernesto Balducci
[Il mandorlo e il fuoco, Avvento, 1a domenica]
Buona giornata a tutti. :-)
Grazie
RispondiEliminaBuon giornata.
RispondiEliminaStefania