mercoledì 30 agosto 2017

Da: “L’ultima Beatitudine” La morte come pienezza di vita - Padre Alberto Maggi (2)

(…) Attualmente, dunque, non si muore più in mezzo ai propri cari, ma perlopiù da soli, intubati, legati a macchinari che tentano di supplire alle funzioni vitali alimentando, ventilando, iniettando, aspirando un corpo che senza quegli strumenti avrebbe smesso di esistere già da un pezzo. 
A forza di dire che è sacra la vita, ci si dimentica della sacralità dell’uomo, della sua dignità. 
Se a essere sacra è la vita, questa va prolungata il più possibile, con ogni tecnica immaginabile, anche se ciò diventa una vera e propria tortura, un’atroce lunga agonia. 
Se è sacro l’uomo, costui ha il diritto di vedere rispettata la sua dignità e il suo voler e poter morire: «La dignità della morte, quindi, può configurarsi, oggi, come vero e proprio diritto umano […]. 
In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? 
In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo»..
Così si muore in ospedale, o negli hospice, sia perché si spera fino all’ultimo di avere la possibilità di una cura che garantisca la sopravvivenza per il malato, o che ne ritardi il più possibile la fine, sia perché non si è più capaci di gestire l’evento del morire, o anche perché si vuole avere la coscienza a posto, sapendo che si è fatto tutto il possibile, che è molte volte tutto il possibile per chi decide il ricovero, e non per chi lo subisce. 
«L’ho fatto per il tuo bene» è l’alibi dietro il quale spesso si cerca di nascondere che, in realtà, quel che è stato deciso per il malato è stato fatto solo per il proprio bene, perché incapaci di gestire la situazione troppo gravosa e impegnativa: «Il “possibile” consiste a volte nel non far nulla o, quantomeno, nel sospendere quei presidi che si rivelano inutili o dannosi. Allo stato attuale, la richiesta dei familiari è sicuramente la prima e più importante causa di accanimento terapeutico». 
Quando il morente viene consegnato all’ospedale, è affidato a tecnici del morire e della morte, che sanno come e cosa fare professionalmente del cadavere al momento del trapasso.
In famiglia no. Non si è più abituati e organizzati a questo evento, e ci si trova impreparati, perché ne manca l’esperienza che veniva acquisita fin da piccoli quando in casa avveniva un decesso, e tutti i familiari avevano un compito ben preciso: subito si chiudeva la bocca del defunto con un fazzoletto annodandoglielo alla testa, si lavava e si ricomponeva la salma, la si vestiva, si procuravano candele e fiori, e si allestiva la «camera ardente», dove il defunto e i suoi familiari avrebbero ricevuto la visita di parenti, amici e conoscenti, venuti per esprimere le loro condoglianze. 
Il morire e la morte oggi paventano e imbarazzano, non si sa più come gestire questi momenti, e allora è preferibile delegare tutto al personale infermieristico o alle imprese di onoranze funebri, esperte nel trattare professionalmente (e lucrosamente) il caro estinto.



- Padre Alberto Maggi -
Da: “L’ultima Beatitudine” La morte come pienezza di vita, Garzanti editore




..... Ho già detto del prete che mi portava la comunione che ho rifiutato. Mi mandano un altro, una persona molto pia, molto buona ma per darmela mi sottoponeva al rituale, quello del “Confesso a Dio Padre Onnipotente” e dovevo dire “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.” 
Poco convinto il primo giorno tossicchiando, perché c’avevo tanta tosse, l’ho detto; il secondo giorno di nuovo prima di darmi la comunione dovevo dire “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.” 
Allora sono sbottato e ho detto “E che cavolo di grandissima colpa posso avere fatto in un giorno? 
Eh sto qui, buono, mi sbucazzano da tutte le parti, non dico una parola, che grandissima colpa?” e anche questo mi ha aiutato a riflettere come la liturgia, certe preghiere hanno inculcato il senso di colpa nelle persone. 
Sono queste persone che, convinte, dicono “mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa...” che razza di colpa? 
Ed è un qualcosa che una struttura di potere ha usato per dominare, per inculcare il senso di colpa nelle persone. 
E allora anche questo prete non l’ho voluto più, quindi ho rifiutato già due preti e dopo c’è stato il carissimo Panfilo, amico del Centro, che mi portava lui la comunione, leggevamo una frase del Vangelo, una preghiera, il Padre Nostro ed era fatto....

- Padre Alberto Maggi OSM - 
Assisi 31 agosto 2012


Buona giornata a tutti. :-)







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