lunedì 25 luglio 2016

Il giro del 99 - Osho

C'era una volta un re molto triste che aveva un servo, e questo servo, come ogni servo di re triste, era molto felice. Ogni mattina svegliava il re e gli portava la colazione canticchiando allegre canzoncine dei trovatori. Aveva sempre un grande sorriso sul volto disteso, e nei confronti della vita un atteggiamento sereno e felice.
Un giorno il re lo fece chiamare.
«Paggio» disse «qual è il tuo segreto?» «Quale segreto, maestà?»
«Qual è il segreto della tua allegria?» «Non c'è nessun segreto, Maestà.»
«Non mentire, paggio. Ho fatto tagliare teste per offese meno gravi di una menzogna.»
«Non vi sto mentendo, maestà. Non ho nessun segreto.» «Perché sei sempre felice e allegro? Eh? Perché?»
«Signore, non ho motivo di essere triste. La vostra maestà mi onora consentendomi di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ci forniscono cibo e vestiti e inoltre la vostra maestà ogni tanto mi premia con qualche moneta e possiamo levarci qualche capriccio. Come potrei non essere felice?» «Se non mi dici subito il tuo segreto, ti farò decapitare sedu­ta stante» disse il re. «Nessuno può essere felice per le ragio­ni che hai detto.»
«Ma maestà, non c'è nessun segreto. Desidero soltanto com­piacervi, non vi sto nascondendo nulla.» «Và via, va' via prima che chiami il boia!» 

Il servitore sorrise, fece una riverenza e uscì dalla stanza.
Il re era come impazzito. Non riusciva a spiegarsi per quale motivo quel paggio fosse così felice vivendo di cose prese in prestito, indossando vestiti dismessi e nutrendosi degli avan­zi dei cortigiani.
Quando riuscì a calmarsi, chiamò il consigliere più saggio e gli raccontò la conversazione di quella mattina. «Perché quell'uomo è felice?»
«Ah, maestà, il fatto è che lui è fuori dal giro.» «Fuori dal giro?»
«Esatto.»
«E questo lo rende felice?»
«No, signore. Questo non lo rende infelice.»
«Vediamo se ho capito. Stare nel giro ti rende infelice?» «Esatto.»
«E lui non è dentro al giro.»
«Esatto.»
«E come ha fatto a uscire?»
«Non è mai entrato.» «Ma di che giro si tratta?» «Il giro del novantanove.»
«Non ci capisco niente davvero.»
«Potrai capirlo soltanto se lasci che te lo dimostri con i fatti.» «E come?»
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro.»
«Sì, costringiamolo a entrare.»
«No, maestà. Nessuno può essere costretto a entrare nel giro.»
«Allora dovremo tendergli un tranello.»
«Non ce n'è bisogno, maestà. Se gli diamo l'opportunità, ci entrerà da solo.»
«Ma lui non si renderà conto che diventerà una persona infelice?»
«Sì, se ne renderà conto.»
«Allora non ci entrerà.» «Non potrà evitarlo.»
«Dici che si rende conto dell'infelicità che proverà entrando in quel ridicolo giro e ciononostante lo farà e non potrà più uscirne?»
«Esatto, maestà. Sei disposto a perdere un eccellente servito­re per poter capire la struttura del giro?» «Sì.»
«Molto bene. Stanotte verrò a prenderti. Devi avere prepa­rato una borsa di cuoio con dentro novantanove monete d'oro. Non una di più né una di meno.» «Che altro? Devo portarmi dietro anche le guardie?» «Soltanto la borsa di cuoio. Ci vediamo stanotte, maestà.» «Ci vediamo stanotte.»
Così fu. Quella notte il saggio andò a prendere il re. Insieme scesero di nascosto nei cortili del palazzo e si nascosero vici­no alla casa del paggio. E lì attesero l'alba.
Nella casa si accese la prima candela. Il saggio legò alla borsa di cuoio un foglietto con un messaggio che diceva:

"Questo tesoro è tuo.
È il premio
Per essere un brav'uomo. Goditelo
E non dire a nessuno 
Come lo hai trovato."

Poi legò la borsa alla porta della casa del servo, bussò e tornò a nascondersi.
Quando il paggio uscì, il saggio e il re spiarono le sue mosse da dietro a un cespuglio.
Il servitore aprì la borsa, lesse il messaggio, agitò il sacco e, sentendo il suono metallico provenire dall'interno, venne percorso da un brivido, strinse il tesoro contro il petto, si guardò intorno per controllare che nessuno lo osservasse e rientrò in casa.
Dall'esterno si sentì che il domestico stava sbarrando la porta, e i due spioni si affacciarono alla finestra per osserva­re la scena.
Il domestico aveva buttato per terra tutto quello che c'era sopra il tavolo, tranne una candela. Si era seduto e aveva svuotato il contenuto della borsa. I suoi occhi non credeva­no a quello che stavano vedendo. Era una montagna di monete d'oro!
Lui che non ne aveva mai toccata nessuna, adesso ne aveva un'intera montagna a sua disposizione. Il paggio le maneggiava tutte e le ammucchiava. Le accarez­zava e faceva in modo che la luce della candela le facesse risplendere. Le metteva insieme e le sparpagliava di nuovo, facendone tanti mucchietti.
E così, a forza di giocherellare, cominciò a fare dei muc­chietti di dieci monete. Un mucchietto di dieci, due muc­chietti di dieci, tre mucchietti, quattro, cinque, sei... E intanto faceva le somme: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta... Fino a formare l'ultimo mucchietto... ed era di nove monete!
Dapprima indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricer­ca della moneta mancante. Poi guardò per terra e alla fine la borsa.
«Non è possibile» pensò. Accostò l'ultimo mucchietto a tutti gli altri e vide che era più basso.
«Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Ma­ledetti!»
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto ai mobili... Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchiet­to di monete splendenti gli ricordava che aveva novantano­ve monete d'oro. Soltanto novantanove.
«Novantanove monete. Sono tanti soldi» pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero com­pleto» pensava. «Cento è un numero completo, novanta­nove no.»
Il re e il suo consigliere guardavano dalla finestra. La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fronte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si con­traeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Il servitore rimise le monete nella borsa e, guardando a destra e a sinistra per non farsi vedere da nessuno in casa, nascose la borsa in mezzo alla legna. Poi prese carta e penna e si sedette per fare i conti.
Per quanto tempo avrebbe dovuto mettere da parte i rispar­mi per comprarsi la moneta numero cento? Il servo parlava da solo, ad alta voce. Era disposto a lavorare sodo pur di ottenerla. Poi magari non avrebbe avuto più bisogno di lavorare. Con cento monete d'oro un uomo può smettere di lavorare. Con cento monete un uomo è ricco. Con cento monete si può vivere tranquilli. Finì di fare i suoi conti. Se lavorava e metteva da parte il salario e qualche extra che magari gli davano, nel giro di undici o dodici anni avrebbe avuto il necessario per com­prarsi un'altra moneta d'oro.
«Dodici anni sono tanto tempo» pensò.
Magari avrebbe potuto chiedere alla moglie di cercarsi un lavoro in paese per un po' di tempo. E dopotutto lui fini­va il lavoro a palazzo alle cinque del pomeriggio, per cui avrebbe potuto lavorare fino a sera e ricevere una paga extra.
Fece i conti: sommando il suo lavoro in paese e quello della moglie, in sette anni avrebbe potuto mettere insieme il denaro sufficiente.
Era troppo tempo!
Magari avrebbe potuto portare in paese il cibo che avanza­vano ogni sera e venderlo per poche monete. In effetti, meno mangiavano, più cibo avrebbero potuto vendere. Vendere, vendere...
Iniziava a fare caldo. Perché ci volevano tanti vestiti d'inver­no? Perché avere più di un paio di scarpe?
Era un sacrificio. Ma con quattro anni di sacrifici avrebbe guadagnato la sua moneta numero cento. Il re e il saggio ritornarono a palazzo. Il paggio era entrato nel giro del novantanove...
Nei mesi successivi il servitore seguì i suoi piani così come li aveva concepiti quella notte. Una mattina, il paggio entrò nell'alcova reale sbattendo la porta, brontolando e di malu­more.
«Che cos'hai?» chiese il re con belle maniere.
«Non ho niente, non ho niente.»
«Prima, poco tempo fa, ridevi e cantavi sempre.»
«Faccio il mio lavoro, no? Che cosa pretende la vostra mae­stà? Pretende che faccia anche il buffone e il trovatore?» Non passò molto tempo che il re licenziò il servitore. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.


Tutti quanti, me e te compresi, siamo stati educati con questa stupida ideologia. Ci manca sempre qualcosa per essere soddisfatti, e soltanto se siamo soddisfatti possiamo godere di quello che possediamo.
Per cui abbiamo imparato che la felicità arriva soltanto quando avremo completato quel che ci manca...
E dato che ci manca sempre qualcosa, si ricomincia daccapo e non riusciamo mai a goderci la vita...


Ma che cosa succederebbe se l'illuminazione accendesse le nostre vite e ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro e che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati
Un tranello per non farci mai smettere di spingere e tutto sarà sempre uguale. Eternamente uguale!
Quante cose cambierebbero Se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.


Vai col vuoto tra le mani, poiché questo è tutto.
Questo è il mio dono.
Se riesci a portare il vuoto tra le tue mani, allora ogni cosa diventa possibile.
Non portarti dietro i tuoi pensieri, la tua conoscenza, non portarti dietro niente di ciò che riempie il secchio, e che non è altro che acqua, perché altrimenti guarderai sempre e solo il riflesso, e nient’altro.
Nella ricchezza, nei beni materiali, nella casa, nell’automobile, nel prestigio, tu non vedrai che il riflesso della luna piena nell’acqua del secchio, mentre la luna vera è lì, in alto, che ti aspetta da sempre.
Lascia cadere il secchio, così che l’acqua sfugga via, e con essa la luna.
Solo questo ti permetterà di alzare lo sguardo e vedere la vera luna nel cielo, ma prima devi avere conosciuto il sapore del vuoto, devi lasciar cadere il secchio della tua mente, dei tuoi pensieri: non più acqua, né luna.

- Osho Rajneesh -
da: Dieci storie Zen


"Il vostro essere interiore altro non è che il cielo vuoto. 
Le nubi vanno e vengono, i pianeti nascono e scompaiono, le stelle sorgono per poi morire, e quel cielo interiore rimane intatto, identico a se stesso, immacolato, limpido. 
Quel cielo interiore è chiamato sakshin, il testimone, ed è quella la meta della meditazione. Entra in te, e godi di quel cielo interiore. Ricorda: tutto ciò che puoi vedere, non sei tu. 
Puoi vedere i tuoi pensieri, dunque non sei i pensieri; puoi vedere i tuoi sentimenti, dunque non sei i tuoi sentimenti; puoi vedere i tuoi sogni, i desideri, i ricordi, le immaginazioni, le proiezioni, dunque non sei nulla di tutto ciò. Vai avanti, eliminando tutto ciò che sei in grado di vedere. E un giorno sorgerà un istante incredibile, l'istante più ricco di significato nella vita di un uomo, l'istante in cui non resta più nulla da scartare. Tutto ciò che può essere visto è scomparso solo il veggente rimane.' Colui che vede è il cielo vuoto. Conoscerlo rende liberi da ogni timore, conoscerlo rende ricolmi d'amore, Conoscerlo significa essere Dio, essere immortali".



Buona giornata a tutti. :-)

www.leggoerifletto.it