lunedì 1 ottobre 2012

Sulla tua Parola – Card. Carlo Maria Martini -

[...]

Chiedere perdono è difficile e nel farlo pubblicamente si rischia di cadere nella retorica. 
E tuttavia vi sono momenti nei quali non posso non riconoscermi nel senso di fatica e di frustrazione di Pietro che dice: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5) ed esclama: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8).
Mi pare di avere compreso che il Signore ci mette in posizioni di responsabilità anche perché sperimentiamo ripetutamente che, per quanto riguarda noi, siamo immensamente fragili, poveri e inadeguati. 
Si giunge ad esclamare con sorpresa: non pensavo di essere così debole! 
Si ha davvero l’impressione che il Signore ci spogli, ci purifichi, ci strizzi e ci sbatta come un panno da lavare affinché ci rendiamo conto che “da noi stessi siamo incapaci di pensare qualcosa come proveniente da noi” e che “la nostra capacità viene da Dio” (cfr. 2 Cor 3,5). 
Pesano su di noi non solo le mancanze e i peccati personali ma anche le omissioni di fronte alle molte cose che urgono e soprattutto quell’assillo quotidiano (cfr. 2 Cor 11,28s), quella responsabilità per il cammino della Chiesa che ci fa interrogare con ansia: ma ciò che stiamo facendo, ciò che sto proponendo è davvero secondo il Vangelo? 
Non stiamo per caso tradendo il mandato di Gesù?
Non corriamo il pericolo di trascurare ciò che è essenziale? 
Non ci lasciamo forse ingannare dalla routine, dalla pigrizia, da un vano timore, dall’amore dei nostri comodi, dallo spirito mondano? 
Queste e simili interrogazioni lacerano il cuore e se non fosse per la fiducia nel Dio misericordioso ne saremmo come schiacciati. 
In questo quadro di riconoscimento delle nostre fragilità vorrei sottolinearne in particolare alcune. 

Vorrei confessare a Dio e a voi, il senso di inadeguatezza relativo ai rapporti di comunione (così mirabilmente espressi nella NMI, nn.43-45).
Fermo restando tutto quanto ho appena detto al Signore nella confessio laudis, devo ammettere che spesso non ho coltivato le vicinanze, non ho saputo creare e intrattenere con molti quei rapporti di affetto semplice e cordiale pur tanto desiderati.
Riconosco che da una parte il mio stile, la mia educazione e il mio temperamento unito al peso del ruolo, dall’altra le dimensioni oggettive della diocesi non mi hanno consentito di fare di più, e me ne dolgo. 
Spesso sono stato giocato dalla fretta, dalla stanchezza, dalle urgenze che premevano, dai miei limiti personali. 
É proprio questo, però, che mi fa cogliere ancor più l’eccesso della bontà divina a fronte della mia povertà e pochezza. 
L’affetto di cui sono stato circondato non solo da tanti singoli, in particolare dai miei più stretti collaboratori, ma anche dalla gente, dalle tante parrocchie e comunità che ho visitato, mi commuove, mi arricchisce, mi sostiene. 
In altre parole, l’impatto con la Chiesa di Milano e anche con la società civile mi ha dato immensamente più di quanto io non abbia saputo dare o avrei potuto immaginare. 

Chiedo perdono comunque a quanti non si fossero sentiti amati come avrebbero desiderato o atteso: ai vescovi e vicari episcopali, ai collaboratori di curia, ai presbiteri e diaconi, tutti compagni preziosi e infaticabili del mio quotidiano servizio; ai consacrati e alle consacrate che hanno sostenuto con la preghiera e con tante opere di carità e di evangelizzazione la missione della Chiesa milanese; ai laici, che a volte mi avrebbero voluto più dalla loro, nonostante i tanti miei pronunciamenti a favore della corresponsabilità e dell’impegno comune.
Chiedo perdono ai gruppi, alle associazioni e ai movimenti che si fossero sentiti poco valorizzati o sostenuti da me. 
Ho sempre goduto di fronte a testimonianze autentiche di vangelo vissuto, dovunque si trovassero, ma ho avuto anche difficoltà nel comprendere alcune logiche che mi sembravano particolaristiche e autoreferenziali. 
Ho sognato che parrocchie e movimenti potessero unire le energie, riconoscendo ciascuno i propri doni e uscendo dai particolarismi, ma il cammino appare ancora lungo.
Come Vescovo ho sentito una istintiva preferenza per la centralità della pastorale diocesana e parrocchiale. 
L’onestà dell’intenzione non basta certo a soddisfare chi ritenesse di essere stato poco curato o amato: per questo chiedo perdono, e affido alla misericordia di Dio la maturazione dei semi di bene lanciati nel dialogo che mi pare di avere sempre cercato. 

Verso la città e il territorio ammetto di avere spesso faticato a comprendere i complessi meccanismi politico-sociali in atto. 

Milano è stata in questi decenni il laboratorio e la patria di fenomeni di costume e di prassi politica che hanno segnato l’intera nazione. 
Pur avendo desiderato di essere presente e di declinare la Parola in relazione ai fenomeni emergenti, positivi e negativi, denunciando pure la corruzione e le logiche egoistiche talora soggiacenti ai comportamenti collettivi o di gruppi, mi domando se non si poteva fare di più. 
Non basta dire che questo è compito soprattutto dei laici cristiani impegnati nel sociale: ognuno di noi ha la propria parte di responsabilità e io non intendo sottrarmi alla mia. 

Avrei dovuto farmi più carico - anche come intercessore presso Dio - dei peccati più diffusi e degradanti: la corruzione, la droga, la prostituzione, la criminalità organizzata, i peccati contro la vita, le deviazioni sessuali, l’edonismo come stile di vita, le chiusure nel particolarismo... 

Non a mia giustificazione, bensì a testimonianza della convinzione profonda che mi ha guidato, riconosco di aver sempre creduto più nella forza irradiante e contagiosa del bene che nella deplorazione del male: chiedo in ogni caso perdono per quanto si poteva compiere e non è stato compiuto. 

La mia richiesta di perdono si associa a quella che esprimo a nome della mia Chiesa. 
Non è un espediente per dividere a metà le responsabilità; è piuttosto l’espressione della coscienza del mio indissolubile legame col popolo affidatomi da Dio. 
Come ho lodato e benedetto il Signore per i doni che mi ha consentito di discernere in esso, così in comunione con tutti vivo la mia confessio vitae, affidandomi al giudizio di Colui che è la Verità e ci accoglie nella sua misericordia senza limiti: “Il mio giudice è il Signore! Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio” (1 Cor 4,4-5). 

(Carlo Maria Card. Martini)
Fonte:  Sulla tua Parola. Lettera pastorale, 2001


 
10 febbraio 1980 - Ingresso a Milano del Cardinale Carlo Maria Martini


 
In ogni uomo si trova una parte di solitudine che nessuna imtimità umana può colmare, neppure l'amore più forte tra due esseri.
Chi non acconsente a questo luogo di solitudine conosce la rivolta contro gli uomini,
contro Dio stesso.
Tuttavia tu non sei mai solo.
Lasciati sondare fino al centro di te stesso,
e vedrai che ogni uomo è stato reato per essere abitato.
Laggiù. nella profondità dell'essere,
là dove nessun uomo assomiglia agli altri, il Cristo attende.
Là capita "l'inatteso".
 
- Frère Roger - Comunità di Taizè -