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venerdì 16 agosto 2019

Una sbarra tra i ricchi e i poveri - don Primo Mazzolari

Dicono tutti che è l'ora dei poveri, sotto nomi diversi di "povera gente", "massa lavoratrice", "proletariato". 
Di quest'ora che mi fa pensare all'evangelico "è giunto il momento, ed è questo" (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il "si dice", con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce:  ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli:  "vogliateci un po' meno bene e trattateci un po' meglio."


L'allarme è (...) per timore di un possibile baratto - purtroppo già in atto un po' ovunque - tra una "primogenitura e un piatto di lenticchie" (cfr. Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità. 

Quand'uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c'è la "promessa" della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie. 

Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza "primogenitura" e senza "lenticchie", mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto:  "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli" (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti. 
Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica. 
La carità di ogni specie non c'è bisogno che renda:  è feconda e perfetta in sé quand'è vera carità.
(continua)


- don Primo Mazzolari -
estratto dall' antologia Il prete di "Adesso" (Roma, Rogate, 2009, pagine 141,) a cura di Leonardo Sapienza


Colpevole di avere spirito critico
Colpevole di solidarietà
Colpevole di volersi istruire
Colpevole d'umanità
Colpevole di pensare
Colpevole di credere nella democrazia
Colpevole di volere altro


E il guaio caratteristico è questo, che meno quattrini si hanno e meno ci si sente disposti a spenderli in cibo sano. 
Un milionario può apprezzare a colazione, la mattina, succo d'arancia e biscotti leggeri; un disoccupato no [...] 
Quando si è disoccupati, quando cioè non si mangia abbastanza, e si è tormentati, annoiati e depresso, non si ha voglia di mangiare tediosi cibi sani. Si ha voglia di qualcosa un po' "stuzzicante". [...] 
I risultati di tutto ciò sono visibili in una degenerazione fisica [...]

- George Orwell -





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martedì 13 agosto 2019

Il punto nero – Card. Gianfranco Ravasi

Un maestro indù mostrò un giorno ai discepoli un foglio di carta con un puntino nero nel mezzo. «Che cosa vedete?», chiese. Ed essi: «Un punto nero!». «Come? Nessuno di voi è stato capace di vedere il grande spazio bianco tutt'attorno?».        
              
Alle porte di una chiesa milanese, dove sosto uscendo per qualche momento dal frastuono della via, trovo alcune copie del bollettino parrocchiale. 
Ne prendo una e leggo queste pagine limpide e semplici. 
C'è un articolo molto bello del parroco: egli parla alle giovani coppie che si sono preparate con lui alla celebrazione del loro matrimonio.  
M'imbatto, così, in questo apologo orientale e mi è facile proporlo a tutti i miei lettori per una riflessione semplice ma significativa e forse necessaria. Passiamo, infatti, la vita a scovare le pagliuzze negli occhi altrui, a lamentarci per le piccole amarezze dell'esistenza, a elencare puntigliosamente tutto quello che non va nella società, nella Chiesa, nel mondo. 
Lo sguardo è sempre proteso ai puntini neri che costellano il cielo della storia. 
Ma non ci accorgiamo quasi mai del tanto, anzi, dell'immenso candore che c'è nelle anime, dell'amore che in  ogni istante è nascostamente donato, della bontà, della giustizia, della verità che pure popolano i nostri giorni e la nostra terra. 
Certo, non si deve volteggiare nell'orizzonte di un ottimismo di maniera, perché il male esiste ed è sempre attivo. 
Ma aveva ragione lo scrittore Joseph Conrad quando nel suo romanzo L'agente segreto (1907) denunciava «la macchia di quel rassegnato pessimismo che corrompe il mondo». 

«Non abbiate paura - ci ripete Cristo - perché io ho vinto il mondo» ed è questa l'ultima parola della storia.

- Card. Gianfranco Ravasi -
Fonte: Avvenire, Il Mattutino


“Siamo una Chiesa di peccatori; e noi peccatori siamo chiamati a lasciarci trasformare, rinnovare, santificare da Dio”, ha detto Papa Francesco. 
“C’è stata nella storia la tentazione di alcuni che affermavano: la Chiesa è solo la Chiesa dei puri, di quelli che sono totalmente coerenti, e gli altri vanno allontanati. 
Ma questa era una eresia. No! La Chiesa, che è santa, non rifiuta i peccatori; al contrario li accoglie, è aperta anche ai più lontani, chiama tutti a lasciarsi avvolgere dalla misericordia, dalla tenerezza e dal perdono del Padre, che offre a tutti la possibilità di incontrarlo, di camminare verso la santità. 
‘Mah! Padre, io sono un peccatore, ho grandi peccati, come posso sentirmi parte della Chiesa? ‘. Caro fratello, cara sorella, è proprio questo che desidera il Signore; che tu gli dica: ‘Signore sono qui, con i miei peccati. Perdonami, aiutami a camminare, trasforma il mio cuore! ‘. 
Nella Chiesa, il Dio che incontriamo non è un giudice spietato, ma è come il Padre della parabola evangelica. Puoi essere come il figlio che ha lasciato la casa, che ha toccato il fondo della lontananza da Dio. 
Quando hai la forza di dire: voglio tornare in casa, troverai la porta aperta, Dio ti viene incontro perché ti aspetta sempre, Dio ti abbraccia, ti bacia e fa festa. 
Il Signore ci vuole parte di una Chiesa che sa aprire le braccia per accogliere tutti, che non è la casa di pochi, ma la casa di tutti, dove tutti possono essere rinnovati, trasformati, santificati dal suo amore, i più forti e i più deboli, i peccatori, gli indifferenti, coloro che si sentono scoraggiati e perduti”.
“C’è una celebre frase dello scrittore francese Leon Bloy”, ha detto il Papa, “negli ultimi momenti della sua vita diceva: ‘C’è una sola tristezza nella vita, quella di non essere santi’. 
Non perdiamo la speranza nella santità, percorriamo tutti questa strada. Vogliamo essere santi? 
Tutti?”




 Donare un sorriso

Rende felice il cuore.
Arricchisce chi lo riceve
Senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante,
Ma il suo ricordo rimane a lungo.
Nessuno è così ricco
Da poterne fare a meno
Né così povero da non poterlo donare.
Il sorriso crea gioia in famiglia,
Da sostegno nel lavoro
Ed segno tangibile di amicizia.
Un sorriso dona sollievo a chi è stanco,
Rinnova il coraggio nelle prove,
E nella tristezza è medicina.
E poi se incontri chi non te lo offre,
Sii generoso e porgigli il tuo:
Nessuno ha tanto bisogno di un sorriso
Come colui che non sa darlo.



Preghiera per la sera

Come i due discepoli del Vangelo, 
ti imploriamo, Signore Gesù: rimani con noi! 
Tu, divino Viandante, 
esperto delle nostre strade 
e conoscitore del nostro cuore, 
non lasciarci prigionieri delle ombre della sera. 
Sostienici nella stanchezza, 
perdona i nostri peccati, 
orienta i nostri passi sulla via del bene. 
Benedici i bambini, i giovani, gli anziani, 

le famiglie, in particolare i malati. 
Benedici i sacerdoti e le persone consacrate. 
Benedici tutta l'umanità. 
Nell'Eucarestia ti sei fatto "farmaco d'immortalità", 
dacci il gusto di una vita piena, 
che ci faccia camminare su questa terra 
come pellegrini fiduciosi e gioiosi, 
guardando sempre al traguardo della vita che non ha fine. 
Rimani con noi, Signore! 

Rimani con noi! Amen

- san Giovanni Paolo II, papa -
Preghiera di Giovanni Paolo II per l'Anno Eucaristico 2004




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lunedì 12 agosto 2019

Mi puoi sostituire? - Eric Pearlman

Mi puoi sostituire, Signore?
Non per molto.
Forse bastano anche solo
un paio di giorni.
Prendi il mio posto.
Diventa me:
mettiti i miei pantaloni,
il mio giaccone blu,
il mio berretto di lana.
Timbra il cartellino alle 7
e, nella pausa pranzo,
vai tu a parlare col capo officina.
Quando torni a casa,
spiega tu a mia moglie
che anche questo mese sarà dura.
Spiega tu a Michele
che si deve tenere gli occhiali vecchi
ancora per un po'
perché mancano i soldi
per quelli nuovi.
Passa tu la notte da mia madre,
in quell'ospedale
che sembra una prigione.
Sistema tu,
almeno qualcuno dei mille casini
che mi sono piovuti addosso.
Non sono un vigliacco, Signore!
Se ti chiedo di prendere il mio posto
è solo perché ho paura
di non essere all'altezza
e so che tu potresti sistemare tutto.
Se ti chiedo di prendere il mio posto
è perché forse non ho ancora capito
che tu l'hai già preso una volta
e non hai scelto scorciatoie.
Ci sei stato dentro nella vita,
fino al collo,
fino alla croce
fino al mattino di Pasqua.
Resto io al mio posto, Signore.
Ma tu
stammi vicino.


- Eric Pearlam -


Gesù si mostra solidale con noi, con la nostra fatica di convertirci, di lasciare i nostri egoismi, di staccarci dai nostri peccati, per dirci che se lo accettiamo nella nostra vita Egli è capace di risollevarci e condurci all’altezza di Dio Padre. 
E questa solidarietà di Gesù non è, per così dire, un semplice esercizio della mente e della volontà. Gesù si è immerso realmente nella nostra condizione umana, l’ha vissuta fino in fondo, fuorché nel peccato, ed è in grado di comprenderne la debolezza e la fragilità. 

- papa Benedetto XVI - 
Omelia Domenica, 13 gennaio 2013




"Se vuoi diventare qualcuno, caro ragazzo, cara ragazza, genitore, sacerdote, vescovo, se vuoi diventare qualcuno, se vuoi raggiungere una certa maturità e la pienezza del tuo essere umano, ricordati: ciò deve costare. 
La croce è infissa al centro stesso dello sviluppo essenziale dell'uomo". 

- san Giovanni Paolo II, papa -



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sabato 10 agosto 2019

La caverna - don Bruno Ferrero

San Pacomio voleva conoscere il significato della vita e meditava ogni giorno le parole sacre e quelle dei sapienti per scoprirne il segreto.
Una notte il Signore lo accontentò e gli mandò un sogno.
Pacomio vide che il mondo era una immensa caverna nera e buia.
In essa gli esseri umani si aggiravano a tentoni, urtandosi, talvolta ferendosi, incespicando, sempre più sfiduciati e depressi perché non riuscivano a trovare una via d’uscita. Poi, improvvisamente, un uomo (o una donna) accese una luce.
Una luce minuscola, ma non esiste tenebra così profonda da non poter essere vinta da una luce anche piccolissima. Con una luce si può sempre trovare una via di scampo, così tutti si misero dietro alla persona che aveva il lumino. Dapprima si accalcarono, ostacolandosi a vicenda, poi cercarono di mettersi in fila indiana. Ma erano tanti e il buio era profondo e la luce appena percettibile.
Alla fine trovarono la soluzione adeguata: si presero tutti per mano.

Prendi per mano quelli che ti sono vicini e tienili stretti, perché la luce è piccola e il buio sempre più profondo.

- don Bruno Ferrero - 
tratto da: "Ma noi abbiamo le ali" Piccole storie per l'anima, editrice Elledici



Coraggio, fratello che soffri.
C’è anche per te una deposizione dalla croce.
C’è anche per te una pietà sovrumana.
Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua...
Coraggio.
Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio.
Tra poco, il buio cederà il posto alla luce,
la terra riacquisterà i suoi colori
e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

- don Tonino Bello - 



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mercoledì 7 agosto 2019

La giacca stregata - Dino Buzzati

Benché io apprezzi l’eleganza nel vestire, non bado, di solito, alla perfezione o meno con cui sono tagliati gli abiti dei miei simili. Una sera tuttavia, durante un ricevimento in una casa di Milano conobbi un uomo, dall’apparente età di quarant’anni, il quale letteralmente risplendeva per la bellezza, definitiva e pura, del vestito.
Non so chi fosse, lo incontravo per la prima volta, e alla presentazione, come succede sempre, capire il suo nome fu impossibile. Ma a un certo punto della sera mi trovai vicino a lui, e si cominciò a discorrere. Sembrava un uomo garbato e civile, tuttavia con un alone di tristezza. Forse con esagerata confidenza – Dio me ne avesse distolto – gli feci i complimenti per la sua eleganza; e osai perfino chiedergli chi fosse il suo sarto.  L’uomo ebbe un sorrisetto curioso, quasi che si fosse aspettato la domanda.
«Quasi nessuno lo conosce» disse «però è un gran maestro. E lavora solo quando gli gira. Per pochi iniziati.»
«Dimodoché io… ?»
«Oh, provi, provi. Si chiama Corticella, Alfonso Corticella, via Ferrara 17.»
«Sarà caro, immagino.»
«Lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato.»
«Corticella? Via Ferrara 17, ha detto?»
«Esattamente» rispose lo sconosciuto. E mi lasciò per unirsi ad un altro gruppo.In via Ferrara 17 trovai una casa come tante altre e come quella di tanti altri sarti era l’abitazione di Alfonso Corticella. Fu lui che venne ad aprirmi. 
Era un vecchietto, coi capelli neri, però sicuramente tinti. Con mia sorpresa, non fece il difficile. Anzi, pareva ansioso che diventassi suo cliente. 
Gli spiegai come avevo avuto l’indirizzo, lodai il suo taglio, gli chiesi di farmi un vestito. 
Scegliemmo un pettinato grigio quindi egli prese le misure, e si offerse di venire, per la prova, a casa mia. Gli chiesi il prezzo. Non c’era fretta, lui rispose, ci saremmo sempre messi d’accordo. Che uomo simpatico, pensai sulle prime. Eppure piú tardi, mentre rincasavo, mi accorsi che il vecchietto aveva lasciato un malessere dentro di me (forse per i troppi insistenti e melliflui sorrisi). Insomma non avevo nessun desiderio di rivederlo. Ma ormai il vestito era ordinato. E dopo una ventina di giorni era pronto 
Quando me lo portarono, lo provai, per qualche secondo, dinanzi allo specchio. 
Era un capolavoro. 
Ma, non so bene perché, forse per il ricordo dello sgradevole vecchietto, non avevo nessuna voglia di indossarlo. E passarono settimane prima che mi decidessi. 
Quel giorno me lo ricorderò per sempre. Era un martedì di aprile e pioveva. Quando ebbi infilato l’abito – giacca, calzoni e panciotto – constatai piacevolmente che non mi tirava o stringeva da nessuna parte, come accade quasi sempre con i vestiti nuovi. Eppure mi fasciava alla perfezione. Di regola nella tasca destra della giacca io non metto niente, le carte le tengo nella tasca sinistra. Questo spiega perché solo dopo un paio d’ore, in ufficio, infilando casualmente la mano nella tasca destra, mi accorsi che c’era dentro una carta. Forse il conto del sarto? No. Era un biglietto da diecimila lire. Restai interdetto. Io, certo, non ce l’avevo messo. D’altra parte era assurdo pensare a un regalo della mia donna di servizio, la sola persona che, dopo il sarto, aveva avuto occasione di avvicinarsi al vestito. O che fosse un biglietto falso? Lo guardai controluce, lo confrontai con altri. 
Più buono di così non poteva essere. Unica spiegazione possibile, una distrazione del Corticella. Magari era venuto un cliente a versargli un acconto, il sarto in quel momento non aveva con sé il portafogli e, tanto per non lasciare il biglietto in giro, l’aveva infilato nella mia giacca, appesa ad un manichino. Casi simili possono capitare. Schiacciai il campanello per chiamare la segretaria. Avrei scritto una lettera al Corticella restituendogli i soldi non miei. Sennonché, e non ne saprei dire il motivo, infilai di nuovo la mano nella tasca.

«Che cos’ha dottore? si sente male?» mi chiese la segretaria entrata in quel momento. Dovevo essere diventato pallido come la morte. Nella tasca, le dita avevano incontrato i lembi di un altro cartiglio; il quale pochi istanti prima non c’era.
«No, no, niente» dissi. «Un lieve capogiro. Da qualche tempo mi capita. Forse sono un po’ stanco. Vada pure, signorina, c’era da dettare una lettera, ma lo faremo più tardi.»
Solo dopo che la segretaria fu andata, osai estrarre il foglio dalla tasca. Era un altro biglietto da diecimila lire. Allora provai una terza volta. E una terza banconota usci. Il cuore mi prese a galoppare. Ebbi la sensazione di trovarmi coinvolto, per ragioni misteriose, nel giro di una favola come quelle che si raccontano ai bambini e che nessuno crede vere. Col pretesto di non sentirmi bene, lasciai l’ufficio e rincasai. Avevo bisogno di restare solo. Per fortuna, la donna che faceva i servizi se n’era già andata. Chiusi le porte, abbassai le persiane. Cominciai a estrarre le banconote una dopo l’altra con la massima celerità, dalla tasca che pareva inesauribile. 
Lavorai in una spasmodica tensione di nervi, con la paura che il miracolo cessasse da un momento all’altro. 
Avrei voluto continuare per tutta la sera e la notte, fino ad accumulare miliardi. Ma a un certo punto le forze mi vennero meno. Dinanzi a me stava un mucchio impressionante di banconote. 
L’importante adesso era di nasconderle, che nessuno ne avesse sentore. 
Vuotai un vecchio baule pieno di tappeti e sul fondo, ordinati in tanti mucchietti, deposi i soldi, che via via andavo contando. Erano cinquantotto milioni abbondanti. 
Mi risvegliò al mattino dopo la donna, stupita di trovarmi sul letto ancora tutto vestito. Cercai di ridere, spiegando che la sera prima avevo bevuto un po’ troppo e che il sonno mi aveva colto all’improvviso. 
Una nuova ansia: la donna mi invitava a togliermi il vestito per dargli almeno una spazzolata. Risposi che dovevo uscire subito e che non avevo tempo di cambiarmi. 
Poi mi affrettai in un magazzino di abiti fatti per comprare un altro vestito, di stoffa simile; avrei lasciato questo alle cure della cameriera; il “mio”, quello che avrebbe fatto di me, nel giro di pochi giorni, uno degli uomini più potenti del mondo, l’avrei nascosto in un posto sicuro. Non capivo se vivevo in un sogno, se ero felice o se invece stavo soffocando sotto il peso di una fatalità troppo grande. Per la strada, attraverso l’impermeabile, palpavo continuamente in corrispondenza della magica tasca. Ogni volta respiravo di sollievo. Sotto la stoffa rispondeva il confortante scricchiolio della carta moneta.
Ma una singolare coincidenza raffreddò il mio gioioso delirio. Sui giornali del mattino campeggiava la notizia di una rapina avvenuta il giorno prima. Il camioncino blindato di una banca che, dopo aver fatto il giro delle succursali, stava portando alla sede centrale i versamenti della giornata, era stato assalito e svaligiato in viale Palmanova da quattro banditi. 
All’accorrere della gente, uno dei gangster, per farsi largo, si era messo a sparare. E un passante era rimasto ucciso. Ma soprattutto mi colpì l’ammontare dei bottino: esattamente cinquantotto milioni (come i miei). Poteva esistere un rapporto fra la mia improvvisa ricchezza e il colpo brigantesco avvenuto quasi contemporaneamente? Sembrava insensato pensarlo. E io non sono superstizioso. Tuttavia il fatto mi lasciò molto perplesso. Più si ottiene e più si desidera. Ero già ricco, tenuto conto delle mie modeste abitudini. Ma urgeva il miraggio di una vita di lussi sfrenati. 
E la sera stessa mi rimisi al lavoro. Ora procedevo con più calma e con minore strazio dei nervi. 
Altri centotrentacinque milioni si aggiunsero al tesoro precedente. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. 
Era il presentimento di un pericolo? O la tormentata coscienza di chi ottiene senza meriti una favolosa fortuna? O una specie di confuso rimorso?
Alle prime luci balzai dal letto, mi vestii e corsi fuori in cerca di un giornale. Come lessi, mi mancò il respiro. Un incendio terribile, scaturito da un deposito di nafta, aveva semidistrutto uno stabile nella centralissima via San Cloro. Fra l’altro erano state divorate dalle fiamme le casseforti di un grande istituto immobiliare, che contenevano oltre centotrenta milioni in contanti. 
Nel rogo, due vigili del fuoco avevano trovato la morte. Devo ora forse elencare uno per uno i miei delitti? Sì, perché ormai sapevo che i soldi che la giacca mi procurava, venivano dal crimine, dal sangue, dalla disperazione, dalla morte, venivano dall’inferno. Ma c’era pure dentro di me l’insidia della ragione la quale, irridendo, rifiutava di ammettere una mia qualsiasi responsabilità. 
E allora la tentazione riprendeva, e allora la mano – era così facile! – si infilava nella tasca e le dita, con rapidissima voluttà, stringevano i lembi del sempre nuovo biglietto. 
I soldi, i divini soldi!
Senza lasciare il vecchio appartamento (per non dare nell’occhio), mi ero in poco tempo comprato una grande villa, possedevo una preziosa collezione di quadri, giravo in automobili di lusso, e, lasciata la mia ditta per “motivi di salute”, viaggiavo su e giù per il mondo in compagnia di donne meravigliose. Sapevo che, ogniqualvolta riscuotevo denari dalla giacca, avveniva nel mondo qualcosa di turpe e doloroso. Ma era pur sempre una consapevolezza vaga, non sostenuta da logiche prove. 
Intanto, a ogni mia nuova riscossione, la coscienza mia si degradava, diventando sempre più vile.
E il sarto? Gli telefonai per chiedere il conto, ma nessuno rispondeva. In via Ferrara, dove andai a cercarlo, mi dissero che era emigrato all’estero, non sapevano dove. 
Tutto dunque congiurava a dimostrarmi che, senza saperlo, io avevo stretto un patto col demonio. 
Finché nello stabile dove da molti anni abitavo, una mattina trovarono una pensionata sessantenne asfissiata col gas; si era uccisa per aver smarrito le trentamila lire mensili riscosse il giorno prima (e finite in mano mia). Basta, basta! per non sprofondare fino al fondo dell’abisso, dovevo sbarazzarmi della giacca. Non già cedendola ad altri, perché l’obbrobrio sarebbe continuato (chi mai avrebbe potuto resistere a tanta lusinga?). 
Era indispensabile distruggerla.
In macchina raggiunsi una recondita valle delle Alpi. Lasciai l’auto su uno spiazzo erboso e mi incamminai su per un bosco. Non c’era anima viva. Oltrepassato il bosco, raggiunsi le pietraie della morena. Qui, fra due giganteschi macigni, dal sacco da montagna trassi la giacca infame, la cosparsi di petrolio e diedi fuoco. In pochi minuti non rimase che la cenere. Ma all’ultimo guizzo delle fiamme, dietro di me – pareva a due o tre metri di distanza – risuonò una voce umana: «Troppo tardi, troppo tardi!».

Terrorizzato, mi volsi con un guizzo da serpente. Ma non si vedeva nessuno. Esplorai intorno, saltando da un pietrone all’altro, per scovare il maledetto. Niente. Non c’erano che pietre. 
Nonostante lo spavento provato, ridiscesi al fondo valle con un senso di sollievo. 
Libero, finalmente. E ricco, per fortuna. 
Ma sullo spiazzo erboso, la mia macchina non c’era più. E, ritornato che fui in città, la mia sontuosa villa era sparita; al suo posto, un prato incolto con dei pali che reggevano  l’avviso «Terreno comunale da vendere». 
E i depositi in banca, non mi spiegai come, completamente esauriti. 
E scomparsi, nelle mie numerose cassette di sicurezza, i grossi pacchi di azioni. 
E polvere, nient’altro che polvere, nel vecchio baule. 
Adesso ho ripreso stentatamente a lavorare, me la cavo a mala pena, e, quello che è più strano, nessuno sembra meravigliarsi della mia improvvisa rovina. 
E so che non è ancora finita. 
So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abbietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora.

- Dino Buzzati -
 da: La boutique del mistero, ed. Mondadori, 1968



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martedì 6 agosto 2019

I Vangeli per guarire di Alejandro Jodorowsky

La ricerca di conferme è sintomo di insicurezza personale se trovi qualcuno che te la aggrava....il problema del "basso" è suo non tuo...spetta a noi stessi riacquistare sicurezza e non permettere mai a nessuno di sminuirci!

Che caratteristiche deve avere una persona per guarire qualcuno? 

(Javier Esteban - intervistatore)

- Alejandro Jodorowsky -
da “Lezioni per Mutanti” Interviste con Javier Esteban

In realtà la maggior parte dei problemi che ci tormentano sono quelli che vogliamo avere. Siamo vincolati alle nostre difficoltà in quanto sono loro che formano la nostra identità, sono loro che ci permettono di definirci in quanto persone ...con un determinato carattere. La gente vuole smettere di soffrire ma non è disposta a pagarne il prezzo, a cambiare, e desidera continuare a vivere in funzione dei suoi adorati problemi. 

- Alejandro Jodorowsky - 







Che consigli daresti per vincere le paure di cui soffriamo?

Ogni caso è diverso dall'altro, ma ho sempre detto che bisogna esprimere le paure in forma psicomagica. 

Bisogna scoprire che cosa ci impaurisce e farlo. Se una persona teme di morire, le organizzo una funzione funebre, la seppellisco simbolicamente. 

Chi ha paura di essere povero, lo mando in un altra città a chiedere l'elemosina per un giorno. Faccio sì che si collochino sul limite di quello che temono. Che lo affrontino.

Georg Groddeck ha detto una cosa che mi è piaciuta molto: “hai paura di ciò che desideri”. 

Se una persona ha paura di essere omosessuale, lo mando abbigliato come un travestito in un bar per omosessuali.

Per sconfiggere la paura, bisogna far sì che entri nella tua vita in maniera concreta.


-Alejandro Jodorowsky -
da "Psicomagia"




Sono profondamente convinto della magia della vita.
La magia non è superstizione, la magia è la natura del mondo. Il mondo non è logico nè razionale, è magico, ed esiste un legame stretto tra tutto ciò che accade.
Il tempo non è lineare, gli effetti a volte si producono prima delle cause, alcune cose sono inspiegabili... la realtà è miracolosa, è magica.
Segue principi che non sono scientifici. La realtà non è scientifica.
Questa vita che noi vorremmo logica è in realtà folle, scioccante, meravigliosa e crudele. Il nostro comportamento che pretendiamo logico e consapevole, di fatto è irrazionale, pazzo, contraddittorio.
La realtà è come un sogno nel quale dobbiamo lavorare per poter passare progressivamente dal sogno inconscio, che può sempre trasformarsi in incubo, al sogno "lucido". Se osserviamo lucidamente la nostra realtà scopriamo che è poetica, illogica, esuberante. 

- Alejandro Jodorowsky -


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