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venerdì 6 settembre 2019

Le tre domande - Lev Tolstoj

 Un giorno, un certo imperatore pensò che se avesse avuto la risposta a tre domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualunque problema:

• Qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa?
• Quali sono le persone più importanti con cui collaborare?
• Qual è la cosa che più conta sopra tutte?

L'imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando che chi avesse saputo rispondere alle tre domande avrebbe ricevuto una lauta ricompensa. Subito si presentarono a corte numerosi aspiranti, ciascuno con la propria risposta. 
Riguardo alla prima domanda, un tale gli consigliò di preparare un piano di lavoro a cui attenersi rigorosamente, specificando l'ora, il giorno, il mese e l'anno da riservare a ciascuna attività. Soltanto allora avrebbe potuto sperare di fare ogni cosa al momento giusto. 
Un altro replicò che era impossibile stabilirlo in anticipo; per sapere cosa fare e quando farlo, l'imperatore doveva rinunciare a ogni futile svago e seguire attentamente il corso degli eventi. 
Qualcuno era convinto che l'imperatore non poteva essere tanto previdente e competente da decidere da solo quando intraprendere ogni singola attività; la cosa migliore era istituire un Consiglio di esperti e rimettersi al suo parere. Qualcun altro disse che certe questioni richiedono una decisione immediata e non lasciano tempo alle consultazioni; se però voleva conoscere in anticipo l'avvenire, avrebbe fatto bene a rivolgersi ai maghi e agli indovini. 
Anche alla seconda domanda si rispose nel modi più disparati. 
Uno disse che l'imperatore doveva riporre tutta la sua fiducia negli amministratori, un altro gli consigliò di affidarsi al clero e ai monaci; c'era chi gli raccomandava i medici e chi si pronunciava in favore dei soldati. 
La terza domanda suscitò di nuovo una varietà di pareri. 
Alcuni dissero che l'attività più importante era la scienza. 
Altri insistevano sulla religione. 
Altri ancora affermavano che la cosa più importante era l'arte militare. L'imperatore non fu soddisfatto da nessuna delle risposte, e la ricompensa non venne assegnata. 
Dopo parecchie notti di riflessione, l'imperatore decise di andare a trovare un eremita che viveva sulle montagne e che aveva fama di essere un illuminato. Voleva cercarlo per rivolgere a lui le tre domande, pur sapendo che l'eremita non lasciava mai le montagne e riceveva solo la povera gente, rifiutandosi di trattare con i ricchi e i potenti. 
Perciò, rivestiti i panni di un semplice contadino, ordinò alla sua scorta di attenderlo ai piedi del monte e si arrampicò da solo su per la china in cerca dell'eremita. 
Giunto alla dimora del sant'uomo, l'imperatore lo trovò che vangava l'orto nei pressi della sua capanna. 
Alla vista dello sconosciuto, l'eremita fece un cenno di saluto col capo senza smettere di vangare. 
La fatica gli si leggeva in volto. Era vecchio, e ogni volta che affondava la vanga per smuovere una zolla, gettava un lamento. 
L'imperatore gli si avvicinò e disse: "Sono venuto per chiederti di rispondere a tre domande: qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa? Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? Qual è la cosa che più conta sopra tutte?". 
L'eremita ascoltò attentamente, ma si limitò a dargli un'amichevole pacca sulla spalla e riprese a vangare. 

L'imperatore disse: "Devi essere stanco. Sù, lascia che ti dia una mano''. L'eremita lo ringraziò, gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare. 
Dopo aver scavato due solchi, l'imperatore si fermò e si, rivolse all'eremita per ripetergli le sue tre domande. 
Di nuovo quello non rispose, ma si alzò e disse, indicando la vanga: , "Perché non ti riposi? Ora ricomincio io''. Ma l'imperatore continuò a vangare. Passa un'ora, ne passano due. Finalmente il sole comincia a calare dietro le montagne. 
L'imperatore mise giù la vanga e disse all'eremita: ''Sono venuto per rivolgerti tre domande. Ma se non sai darmi la risposta ti prego di dirmelo, così me ne ritorno a casa mia''. L'eremita alzò la testa e domandò all'imperatore: "Non senti qualcuno che corre verso di noi?".
L'imperatore si voltò. Entrambi videro sbucare dal folto degli alberi un uomo con una lunga barba bianca che correva a perdifiato premendosi le mani insanguinate sullo stomaco. L'uomo puntò verso l'imperatore, prima di accasciarsi al suolo con un gemito, privo di sensi. 
Rimossi gli indumenti, videro che era stato ferito gravemente. L'imperatore pulì la ferita e la fasciò servendosi della propria camicia che però in pochi istanti fu completamente intrisa di sangue. Allora la sciacquò e rifece la fasciatura più volte, finché l'emorragia non si fu fermata. Alla fine il ferito riprese i sensi e chiese da bere. 
L'imperatore corse al fiume e ritornò con una brocca d'acqua fresca. Nel frattempo, il sole era, tramontato e l'aria notturna cominciava a farsi fredda. L'eremita aiutò l'imperatore a trasportare il ferito nella capanna e ad adagiarlo sul suo letto. L'uomo chiuse gli occhi e restò immobile. 
L'imperatore era sfinito dalla lunga arrampicata e dal lavoro nell'orto. Si appoggiò al vano della porta e si addormentò. 
Al suo risveglio, il sole era già alto. Per un attimo dimenticò dov'era e cos'era venuto a fare. Gettò un'occhiata al letto e vide il ferito che si guardava attorno smarrito. 
Alla vista dell'imperatore, si mise a fissarlo intensamente e gli disse in un sussurro: "Vi prego, perdonatemi". "Ma di che cosa devo perdonarti?", rispose l'imperatore. 'Voi non mi conoscete, maestà, ma lo vi conosco. Ero vostro nemico mortale e avevo giurato di vendicarmi perché nell'ultima guerra uccideste mio fratello e vi impossessaste dei miei beni. Quando seppi che andavate da solo sulle montagne in cerca dell'eremita, decisi di tendervi un agguato sulla via del ritorno e uccidervi. Ma dopo molte ore di attesa non vi eravate ancora fatto vivo, perciò decisi di lasciare il mio nascondiglio per venirvi a cercare. Ma invece di trovare voi mi sono imbattuto nella scorta, che mi ha riconosciuto e mi ha ferito. Per fortuna, sono riuscito a fuggire e ad arrivare fin qui. 
Se non vi avessi incontrato, a quest'ora sarei morto certamente. Volevo uccidervi, e invece mi avete salvato la vita! La mia vergogna e la mia riconoscenza sono indicibili. Se vivo, giuro di servirvi per il resto dei miei giorni e di imporre ai miei figli e nipoti di fare altrettanto. Vi prego, concedetemi il vostro perdono''. 
L'imperatore si rallegrò infinitamente dell'inattesa riconciliazione con un uomo che gli era stato nemico. 
Non solo lo perdonò, ma promise di restituirgli i beni e mandargli il medico e i servitori di corte per accudirlo finché non fosse completamente guarito. Ordinò alla sua scorta di riaccompagnarlo a casa, poi andò in cerca dell'eremita. Prima di ritornare a palazzo, voleva riproporgli le tre domande per l'ultima volta. 
Lo trovò che seminava nel terreno dove il giorno prima avevano vangato. L'eremita si alzò e guardò l'imperatore. "Ma le tue domande hanno già avuto risposta". 
"Come sarebbe?", chiese l'imperatore, perplesso. "Se ieri non avessi avuto pietà della mia vecchiaia e non mi avessi aiutato a scavare questi solchi, saresti stato aggredito da quell'uomo sulla via del ritorno. Allora ti saresti pentito amaramente di non essere rimasto con me. Perciò, il momento più importante era quello in cui scavavi i solchi, la persona più importante ero io, e la  cosa più importante da fare era aiutarmi. 
Più tardi, quando è arrivato il ferito, il momento più importante era quello in cui gli hai medicato la ferita, perché se tu non lo avessi curato sarebbe morto e avresti perso l'occasione di riconciliarti con lui. 
Per lo stesso motivo, la persona più importante era lui e la cosa più importante da fare era medicare la sua ferita. 
Ricorda che c'è un unico momento importante: questo. 
Il presente è il solo momento di cui siamo padroni. 
La persona più importante è sempre quella con cui siamo, quella che ci sta di fronte, perché chi può dire se in futuro avremo a che fare con altre persone? 
La cosa che più conta sopra tutte è rendere felice la persona che ti sta accanto, perché solo questo è lo scopo della vita''. 

Lev Tolstoj -


Il racconto di Tolstoj sembra un brano di letteratura religiosa: non ha nulla da invidiare a qualunque testo sacro. 
Parliamo di servizio sociale, di servire la gente, l'umanità, persone che vivono in un paese lontano, di contribuire alla pace nel mondo, ma spesso dimentichiamo che le persone a cui dobbiamo dedicarci sono innanzitutto quelle che ci vivono accanto. 
Se non sapete servire vostra moglie, vostro marito, i vostri figli, come potrete servire la società? 
Se non sapete rendere felici i vostri figli, come credete di poter rendere felice qualcun altro?



Buona giornata a tutti. :-)


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venerdì 23 agosto 2019

Risolutezza - Martin Buber

Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. 
Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. 
Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. 
Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: “E' meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio”. 
Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. 
Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. 
“Un rammendo!”, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia. 
Quando da giovane ascoltai per la prima volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la quale il maestro aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al massimo per realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e supera la tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio sfavorevole dal suo maestro. 
Indubbiamente il primo inciampo veniva da un potere del corpo sull’anima, cioè da un potere che bisognava spezzare, ma il secondo nasceva dalla più nobile delle motivazioni: meglio fallire che soccombere all’orgoglio per amore del successo! 
Com’è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? 
Non significa esigere troppo dall’uomo? 
E stato solo molto più tardi (ma già un quarto di secolo fa ... ), cioè all’epoca in cui mi ero messo a narrare a mia volta questo racconto della tradizione, che ho capito che qui non si tratta assolutamente di esigere qualcosa dall’uomo. Lo zaddik di Lublino, per l’appunto, non aveva la reputazione di essere un sostenitore dell’ascesi, e il suo discepolo non aveva certo intrapreso quello sforzo con l’intenzione di fargli cosa gradita, ma piuttosto perché sperava di raggiungere così un grado più elevato dell’anima; d’altronde non aveva forse ascoltato, dalla bocca del Veggente stesso, che il digiuno può servire a questo fine nella fase iniziale dello sviluppo personale e nei successivi momenti critici? 
Le parole che il maestro rivolge ora al discepolo, dopo aver chiaramente osservato l’evolversi dell’azzardato tentativo con autentica comprensione, significano senza alcun dubbio questo: “In questo modo non è possibile raggiungere un grado più elevato”. Mette in guardia il discepolo su una cosa che inevitabilmente gli impedisce di realizzare il suo progetto; e questa ci appare chiaramente: oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile. L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata. Ma di nuovo ci si presenta l’interrogativo di sapere se questo alle volte non significhi trattare con eccessiva durezza un uomo. Le cose infatti vanno così nel nostro mondo: uno possiede - “per natura” o “per grazia”, secondo come preferiamo esprimerci - un’anima unitaria, un’anima d’un sol getto e, di conseguenza, realizza opere unitarie, d’un sol getto, proprio perché la sua anima, così fatta, gliele ispira e gliele rende possibili; un altro invece possiede un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che naturalmente determina la sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire dipendono dagli impedimenti e gli inciampi dell’anima, l’inquietudine di questa si manifesta nell’inquietudine di quello. 
Un uomo di questo genere cosa può mai fare se non sforzarsi di superare le tentazioni che gli si presentano sul cammino verso la meta prefissata? 
Cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso dell’azione, “riprendersi” - come si usa dire -, cioè raccogliere la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta, pronto inoltre - com’è il caso del chassid del nostro racconto -, nel momento in cui l’orgoglio lo tenta, addirittura a sacrificare la meta pur di salvare l’anima? 
Se riesaminiamo ancora una volta il nostro racconto a partire da queste domande, scopriamo finalmente l’insegnamento contenuto nella critica del Veggente. E l’insegnamento secondo il quale l’uomo è in grado di unificare la propria anima. 
L’uomo che ha un’anima molteplice, complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo di quest’anima - la forza divina che giace nelle sue profondità - è in grado di agire su di essa e trasformarla, può legare le une alle altre le forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di unificarla. 
Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto. 
E proprio questo che il Veggente rimprovera al chassid: di aver corso l’azzardo con un’anima non unificata; nel corso dell’opera, infatti, l’unificazione non riesce. Ma non bisogna nemmeno immaginarsi che l’ascesi possa provocare l’unificazione: può purificare, può anche concentrare, ma non può far sì che il risultato così ottenuto si mantenga fino al conseguimento della meta, non può proteggere l’anima dalla sua propria contraddizione. 
C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai raggiungerla pienamente. 

Però ogni opera che compio con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, a un’unità più costante di quella antecedente. 
Alla fine si giunge così a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai cosi elevato che essa supera la contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena.

In uno dei giorni di Chanukkà, Rabbi Nahum, figlio del Rabbi di Rizin, entrò all’improvviso nella ieshivà e trovò gli studenti che giocavano a dama, com’è d’uso in quei giorni. Quando videro entrare lo zaddik, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse benevolmente la testa e chiese: “Ma conoscete anche le leggi del gioco della dama?”. E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da sé: “Vi dirò io le leggi del gioco della dama:

Primo: non è permesso fare due passi alla volta.
Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro.
Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole”.

Ma significherebbe fraintendere completamente il significato di “unificazione dell’anima” il tradurre il termine “anima” diversamente da “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. 
Il versetto della Scrittura: “Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze!” il Baal-Shem lo interpretava così: “quello che si fa, va fatto con tutte le membra”, cioè: bisogna coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme, allora la sua opera è opera d’un sol getto.
  
- Martin Buber -
da: Il cammino dell'uomo, Qiqajon, 1990


Buona giornata a tutti. :-)









sabato 20 luglio 2019

Un cammino senza scorciatoie - Tiziano Terzani

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. 
Così, quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. 
«Signor Terzani, lei ha il cancro», disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero - e me ne accorsi subito, meravigliandomi - che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.
Forse quella prima indifferenza fu solo un'istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò.
Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare.
Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere. 
Pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. 
Ero a Bologna. C'ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell'insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all'Istituto delle Malattie Tropicali a Parigi, altri esami per scoprire la causa di un' inspiegabile anemia, finché un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s'era messo con un suo strano strumento - un penetrante serpentaccio di gomma dall'occhio luminoso - a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.
Gli ero grato per essere stato bravo e chiaro. Così potevo, con calma, e ora con una vera ragione, fare i miei conti, ristabilire le mie priorità e prendere le decisioni necessarie.
Stavo per compiere cinquantanove anni e mi venne da voltarmi indietro, come si fa per guardare con soddisfazione la salita che si è fatta, una volta arrivati in cima a una montagna.
La mia vita fino ad allora? Meravigliosa! Un'avventura dopo l'altra, un grande amore, nessun rimpianto, niente di importantissimo ancora da fare. Se da ragazzo, partendo per questo viaggio, mi fossi dato per meta quella di per sé già agognata da tanti di «piantare un albero, mettere al mondo un figlio e scrivere un verso», più o meno c'ero arrivato. E quasi senza accorgermene, senza sforzo e, strada facendo, divertendomi.
Quella notte in ospedale, nel silenzio rotto solo dal frusciare delle auto sull'asfalto bagnato della strada e da quello delle suore sul linoleum del corridoio, mi venne in mente un'immagine di me che da allora mi accompagna.
Mi parve che tutta la mia vita fosse stata come su una giostra: fin dall'inizio m'era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio piacimento senza che mai - me ne resi conto allora per la prima volta -, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto.
No. Davvero il biglietto non ce l'avevo.
Tutta la vita avevo viaggiato a ufo! 
Bene: ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, magari riuscivo anche a fare... un altro giro di giostra.

- Tiziano Terzani -
Fonte: "Un Altro giro di giostra", ed. Longanesi & Co., 2004





Ogni giorno ci sono nuove storie di massacri, ingiustizie, torture ma ci si fa appena caso..
Siamo sopraffatti..
Pensiamo di non poterci fare nulla e così tutti diventiamo sempre più complici del più semplice dei crimini ... l'indifferenza !!

- Tiziano Terzani -







«La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. 
È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. 
A salire c'è più speranza. 
È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all'erta.»

- Tiziano Terzani - 
da “La fine è il mio inizio”





Ciò che è fuori è anche dentro; e ciò che non è dentro non è da nessuna parte. 
Per questo viaggiare non serve. 
Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. 

E’ inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.

- Tiziano Terzani - 

martedì 21 maggio 2019

Signore, che il mio oggi sia il tuo - don Bruno Ferrero sdb

Anche Gesù va in chiesa la domenica, a Nazaret, il suo paese. Naturalmente la chiesa degli ebrei si chiama sinagoga e invece della domenica il giorno dedicato al Signore è il sabato. 
Ed è una cosa abituale per Gesù:  secondo il suo solito dice l'evangelista Luca.
Quel giorno, Gesù si alza per fare la lettura: una brano delle profezie di Isaia che parla del Messia. Dopo la lettura, Gesù si siede. E fa la predica. La predica da seduti era una abitudine tipicamente palestinese. 
La predica di Gesù è come sempre fulminante: un colpo di frusta sugli ascoltatori, perché dopo aver letto la profezia di Isaia dice: 
"Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato". 
Gesù non dice esplicitamente: "Questa Scrittura parla di me e voi potete constatarlo", come del resto non dice mai di essere il Cristo o il Messia. Fornisce ai suoi ascoltatori degli indizi, ma lascia libera la loro intelligenza di accettare o no il segno che ha offerto. 
Gesù li invita a riconoscere la novità che ha fatto irruzione in mezzo a loro.
Gesù fa una cosa che è diventata di moda: fa la "lectio divina" di Isaia 61, cioè riferisce a se stesso quel testo. Fare "lectio divina" di un testo biblico infatti significa trovare che cosa dice di Gesù quel testo e poi che cosa dice a noi.
Ricordiamo quello che spiegò Gesù risorto ai due discepoli: "Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 
Su di me! 
Tutta la Bibbia parla di lui.
"Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato". Lo Spirito del Signore è su di lui. Gesù davanti alla gente è un laico, non è "consacrato" dagli uomini, ma dallo Spirito, che lo ha mandato a portare ai poveri la bella notizia, il Vangelo.
Gesù si presenta non come uno dei profeti, né come un grande "saggio", ma come il "Salvatore", il Liberatore annunciato dalle Scritture, il tanto aspettato Messia. 
È straordinario: Gesù legge la Bibbia! 
Non ne avrebbe certo bisogno. Lo fa per noi, per farci capire quanto sia grande il dono che ci è stato fatto e che non sappiamo apprezzare. 
Un dono che si carica di polvere in un angolo della nostra casa, un libro che non abbiamo mai veramente letto, parole che passano su di noi e non ascoltiamo quasi mai veramente.

Per il suo compleanno, una principessa ricevette dal fidanzato un pesante pacchetto dall'insolita forma tondeggiante.
Impaziente per la curiosità, lo aprì e trovò... una palla di cannone. Delusa e furiosa, scagliò a terra il nero proiettile di bronzo.
Cadendo, l'involucro esteriore della palla si aprì e apparve una palla più piccola d'argento. La principessa la raccolse subito. Rigirandola fra le mani, fece una leggera pressione sulla sua superficie. La sfera d'argento si aprì a sua volta e apparve un astuccio d'oro.
Questa volta la principessa aprì l'astuccio con estrema facilità. All'interno, su una morbida coltre di velluto nero, spiccava un magnifico anello, tempestato di splendidi brillanti che facevano corona a due semplici parole: ti amo.

Molta gente pensa: la Bibbia non mi attira. Contiene troppe pagine austere e incomprensibili. Ma chi fa lo sforzo di rompere il primo "involucro", con attenzione e preghiera, scopre ogni volta nuove e sorprendenti bellezze. E soprattutto verrà presto colpito dalla chiarezza del messaggio divino inciso nella Bibbia: Dio ti ama.

La prima lettura ci presenta la reazione del popolo alla lettura pubblica del libro della Bibbia:
tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Noi non abbiamo reazioni di questo tipo alla lettura della Parola di Dio. Forse perché non prestiamo attenzione più di tanto alla lettura e all'omelia.
Sappiamo dal seguito della storia che le parole di Gesù provocarono un violento rifiuto da parte dei suoi compaesani, tanto che cercarono di buttarlo giù dalla collina su cui era costruito il paese.
L'incontro con la Parola di Dio richiede una reazione. 
Se rispondiamo dicendo "eccomi", come Maria, Mosé, i profeti, allora anche le storie delle nostre vite saranno trasformate. 

Intorno al 269, un ricco egiziano di nome Antonio andò una domenica in chiesa: "Accadde che si stesse leggendo il Vangelo e sentì che cosa il Signore aveva detto al ricco: "Se vuoi essere perfetto, vai, vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri e riceverai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Come se questo ricordo dei santi gli fosse stato mandato da Dio, e come se quel passo fosse stato letto appositamente per lui, Antonio uscì immediatamente e diede agli abitanti del villaggio i possedimenti ereditati dai suoi antenati. consistevano in circa centoventi ettari di terra rigogliosa e fertile, così che non fossero di intralcio a lui e a sua sorella".

Quando Antonio sente quel passo è "come se quel passo fosse stato letto proprio per lui". 
Mille anni dopo, Francesco d'Assisi stava felicemente vivendo la vita scapestrata di giovane ricco. I suoi sogni e le sue fantasie erano modellati dai canti romantici dei trovatori. Poi ha sentito le stesse parole che avevano sconvolto sant'Antonio. Si è sentito interpellato personalmente da quelle parole, che hanno trasformato il modo di percepire la sua individualità.

Può accadere anche a noi. Sentiamo le parole delle letture tratte dalla Bibbia e ci sentiamo interpellati personalmente. Non possiamo immaginare che il lezionario sia stato progettato così che noi potessimo ricevere queste parole come se oggi fossero rivolte a noi.

Non è come se il nostro cellulare improvvisamente si fosse connesso con Dio. È una cosa molto più radicale. In questa storia dell'innamoramento di Dio con l'umanità scopriamo chi siamo. Le parole della Bibbia sembrano rivolte direttamente a noi, perché toccano il senso più profondo della nostra esistenza e della nostra individualità.

Dobbiamo spesso lottare con le scritture per spezzarne il guscio duro e scoprire all'interno il messaggio nutriente. Il compito principale del predicatore è aiutarci a scoprire in ogni testo, la Buona Novella, una fonte di gioia. 
Sant'Agostino diceva del predicare: "Il filo del discorso diventa vivo attraverso la gioia autentica che riceviamo da quello di cui stiamo parlando".

Quando le letture sono terminate diciamo: "Rendiamo grazie a Dio" e dopo il Vangelo diciamo: "Lode a te, o Cristo". Letteralmente, eucaristia significa "rendere grazie" e il nostro primo rendimento di grazie è per la Parola di Dio.
Perciò, quando andiamo in chiesa e ascoltiamo le letture, non speriamo di imparare fatti nuovi sulla vita di Gesù, ma di incontrarlo. In ogni Messa ci sono due comunioni: quella con la parola e quella con il corpo e sangue di Gesù.

Una studentessa piuttosto irrequieta aveva avuto una brutta "overdose" all'Università. Invece di essere consegnata alla polizia fu accompagnata dagli amici in una comunità di accoglienza.
Quando la situazione lo permise, il prete che guidava la comunità, un uomo colto e preparato, professore di teologia e di psicologia. la invitò nel suo ufficio.
Così ricorda: "Ogni sua parola era intercalata da una bestemmia. Devo ammettere che in quel momento mi chiesi se mangiasse con la stessa bocca con cui parlava. Cominciò col raccontarmi del suo "brutto viaggio". Disse che una montagna la stava per schiacciare e che i suoi "amici" dovevano tenerla giù".
I colloqui, nonostante tutto, continuarono.
"Ero semplicemente e completamente sconvolto dalle cose che mi descriveva ad ogni nostra seduta" riferisce il prete, che cercava di cambiare la ragazza con i ragionamenti più sottili e convincenti.

Quando per gli studenti iniziarono le vacanze estive, finirono gli incontri tra il professore e la ragazza. Alla ripresa autunnale, la ragazza non si fece vedere.
Il prete domandò alla sua migliore amica dove fosse. "Oh", disse l'amica, "si è convertita. Adesso vive in una comunità cristiana da qualche parte nel Nord, e scrive lettere come una suora".
Il prete rimase di stucco: non se lo sarebbe proprio aspettato.
Passarono diversi mesi e un giorno, la ragazza tornò per vedere la famiglia e gli amici. Andò anche nell'ufficio del prete e per prima cosa lo abbracciò. Era evidentemente molto cambiata. Il prete le chiese come fosse avvenuta la sua conversione e soprattutto se era stato grazie ai loro colloqui, ma lei rispose: "Oh, no. Lei mi ha trattata con i guanti di velluto. Il cuoco della pizzeria in cui ho lavorato quest'estate, invece, ha usato dei modi diversi. Più di una volta mi ha detto, con il suo forte accento:
"Certo che sembri proprio triste, ragazza. Perché non permetti a Gesù Cristo di entrare nella tua vita? Lascia che Gesù esca dalle pagine della Bibbia per entrare nella tua vita!"
La ragazza sorrise e continuò: "Io gli rispondevo: "Taglia con queste fesserie", ma, a sua insaputa, cominciai a leggere la Bibbia tutte le sere.. E, una di quelle sere, Gesù Cristo uscì veramente da quelle pagine per entrare nella mia vita".
Il prete professore con tutti suoi gradi accademici era stato completamente superato dal cuoco di una pizzeria.

È la migliore delle ricette: lascia che Gesù esca dalle pagine della Bibbia per entrare nella tua vita! Senza perdere tempo.
Oggi, dice Gesù.
Oggi: parola chiave nella mia vita di ogni giorno.
In questi oggi si adempie la Scrittura.
In questo oggi il Cristo entra nella sinagoga delle mie convinzioni per proclamare un lieto messaggio alle povertà del mio pensiero, ai sentimenti prigionieri di quel desiderio infranto sulle rovine di un grigio quotidiano trascinato di ora in ora, al mio sguardo offuscato dal mio orizzonte troppo ravvicinato.
Un anno di grazia, di ritorno, di benedizione.

Signore,
che il mio oggi sia il tuo,
perché nessuna tua Parola 
possa cadere invano nella mia vita 
ma tutte possano realizzarsi 
come chicchi di grano 
nel solco gelido del passato, 
capaci di germogliare 
ai primi venti di primavera.

- Don Bruno FERRERO, sdb -


Buona giornata a tutti. :-)




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lunedì 6 maggio 2019

I 10 Comandamenti dell' Amicizia


1. Stimerai l'amicizia come la più preziosa delle perle.

«Nessun rimedio ha più valore, nessuno è più efficace di un amico presso il quale troviamo conforto nelle giornate cattive e insieme al quale condividiamo la gioia nei momenti di felicità» (A. Rievaulx).


2. Amerai tutti i tuoi amici senza gelosie.


« I veri amici non permettono alla gelosia e allo spirito di competizione di degradare o alterare il loro rapporto; l'amicizia non è esclusiva né possessiva».
E’ dunque importante amare prima se stessi: «non ci si può innamorare di nessuno, se prima di tutto non si è amici di se stessi » (E. Strachen).

3. Aprirai generosamente la tua amicizia ad altri cuori.

« Se il cuore si apre agli altri, si allarga e si riempie di gioia: questo è il bellissimo segreto della vita interiore». 
«L'amicizia rinchiusa in se stessa finisce per stancare e deludere; a essere sempre e solo in due, si finisce per intristirsi ed annoiarsi».

4. Manterrai l'amicizia con il dialogo.

«L'amicizia ha bisogno della comunicazione fra amici. Altrimenti non può nascere né vivere» (Francesco di Sales). 


Gli uomini hanno bisogno di parlare e di essere ascoltati: «la loro anima colma di preoccupazioni, di noia o di gioie aspira ad esprimersi. 

Le parole permettono una comunicazione reciproca».

5. Ai tuoi amici confiderai le tue pene e le tue gioie in tutta semplicità.

«Un amico è qualcuno che sa tutto di voi e che ciononostante vi ama» (Bibbia).

«Una delle grandi felicità della vita è l'amicizia, e una delle felicità dell'amicizia è aver qualcuno cui confidare un segreto» (A. Manzoni).

6. Ai tuoi amici ti mostrerai come sei veramente.

Quale conforto è provare una completa fiducia in qualcuno, poter dire le cose come vengono, senza dover pesare le parole, poter stare in silenzio se la desideriamo. 
Sì, il segno della vera amicizia é il fatto che il silenzio non pesa.

7. Fornirai loro un valido sostegno nelle difficoltà.


«La vera amicizia nasce nel momento in cui decido di essere un amico, e non solo di averne uno». 
«Amico è colui che è al vostro fianco nei momenti difficili».


«Quando un amico è in difficoltà, non annoiatelo chiedendogli cosa potete fare per lui; pensate a quello che sarebbe opportuno fare e fatelo» (E. W. Howe).

8. Ai tuoi amici perdonerai i loro difetti senza esitazioni.

«Nell'amicizia non si va lontano, se non si sa perdonare».

« Per farsi un amico, bisogna chiudere un occhio. Per conservarlo, bisogna chiuderli tutti e due!» (N. Douglas).



9. Cercherai sempre di rendere migliori i tuoi amici.


Ci sono amicizie fatte di complicità che non fanno che alimentare la mediocrità. 


La vera amicizia è un'amicizia di emulazione: «Amare qualcuno, diceva Dostoiewski, significa vederlo come Dio voleva che fosse».

10. Con i tuoi amici costruirai appassionatamente un mondo migliore.

L'amicizia non cambia soltanto due cuori, ma cambia tutti i rapporti con gli altri e può cambiare il mondo, se è posta al servizio di un grande progetto.





Apri il libro della tua vita a poche persone. 

Solo una piccola parte capisce cosa c'è scritto, tutti gli altri sono curiosi.



Il valore dell'amicizia consiste nel mettere l'altro al centro, dove, per abitudine, mettiamo noi stessi .....