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domenica 5 gennaio 2020

18 Principi di Vita - Dalai Lama

1) Tieni sempre conto del fatto che un grande amore e dei grandi risultati comportano un grande rischio.
2) Quando perdi, non perdere la lezione.
3) Segui sempre le 3 “R”: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.
4) Ricorda che non ottenere quel che si vuole può essere talvolta un meraviglioso colpo di fortuna.
5) Impara le regole, affinché tu possa infrangerle in modo appropriato.
6) Non permettere che una piccola disputa danneggi una grande amicizia.
7) Quando ti accorgi di aver commesso un errore, fai immediatamente qualcosa per correggerlo.
8) Trascorri un po’ di tempo da solo ogni giorno.
9) Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciar andare i tuoi valori.
10) Ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta.
11) Vivi una buona, onorevole vita, di modo che, quando ci ripenserai da vecchio, potrai godertela una seconda volta.
12) Un’atmosfera amorevole nella tua casa dev’essere il fondamento della tua vita.
13) Quando ti trovi in disaccordo con le persone a te care, affronta soltanto il problema attuale, senza tirare in ballo il passato.
14) Condividi la tua conoscenza. E’ un modo di raggiungere l’immortalità.
15) Sii gentile con la Terra.
16) Almeno una volta l’anno, vai in un posto dove non sei mai stato prima.
17) Ricorda che il miglior rapporto è quello in cui ci si ama di più di quanto si abbia bisogno l’uno dell’altro.
18) Giudica il tuo successo in relazione a ciò a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo.


- Dalai Lama -



Siamo tutti esseri umani e, da questo punto di vista, siamo uguali. 
Noi tutti vogliamo la felicità e non vogliamo soffrire. 
Se consideriamo questo fatto, troveremo che non ci sono differenze tra persone di diversa fede, razza, colore, cultura. 
Tutti noi abbiamo questo comune senso di felicità.

- Dalai Lama -






Non c'è oppressione che possa, alla lunga, vincere sul diritto e la giustizia.


Buona giornata a tutti. :-)







sabato 16 novembre 2019

Non preoccuparsi di sé - Martin Buber

Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. 
Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. 
“Ah, suocero - gli rispose Rabbi Eleazaro - voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”. 

Questo può sembrare contraddire tutto quanto ho detto finora in queste pagine sull’insegnamento del chassidismo. 
Abbiamo imparato che ogni uomo deve ritornare a se stesso, che deve abbracciare il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare se stesso! 
Eppure basta prestare un po’ più di attenzione per rendersi conto che quest’ultimo consiglio non solo si accorda perfettamente con gli altri, ma si integra nell’insieme come un elemento necessario, uno stadio indispensabile, nel posto che gli compete. 
Basta porsi quest’unica domanda: “A che scopo?”; a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? 
Ed ecco la risposta: “Non per me”. 
Perciò anche prima si diceva: cominciare da se stessi. 
Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. 
Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno. 
La risposta che riceve sembra nascere dalla convinzione che egli sopravvaluti eccessivamente la gravità dei propri peccati e che, d’altro canto, sminuisca altrettanto eccessivamente il valore della penitenza fatta fino a quel momento. 
Ma le parole pronunciate vanno oltre e, in modo assolutamente generale, affermano: “Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato a esercitare sul mondo. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!“. 
Dobbiamo innanzitutto capire bene cosa viene detto qui a proposito del ritorno. Sappiamo che il ritorno si trova al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo: ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. 
Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo - in cui era sempre lui stesso la meta prefissata - trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. 
Il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie. 

In una predicazione pronunciata all’apertura del Giorno dell’Espiazione, il Rabbi di Gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. 
Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. 
Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? 
Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? 
Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! 
Perciò sta scritto: ‘Allontanati dal male e fa’ il bene”, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”. 
Ma l’insegnamento del nostro racconto va oltre: chi si fustiga incessantemente per non aver ancora fatto sufficiente penitenza si preoccupa essenzialmente della salvezza della propria anima e quindi della propria sorte personale nell’eternità. 
Rifiutando questo obbiettivo, il chassidismo non fa altro che trarre una conseguenza dall’insegnamento dell’ebraismo in generale. 
Uno dei principali punti su cui un certo cristianesimo si è distaccato dall’ebraismo consiste proprio nel fatto che quel cristianesimo assegna a ogni uomo come scopo supremo la salvezza della propria anima. 
Agli occhi dell’ebraismo, invece, ogni anima umana è un elemento al servizio della creazione di Dio chiamata a diventare, in virtù dell’azione dell’uomo, il regno di Dio; così a nessun’anima è fissato un fine interno a se stessa, nella propria salvezza individuale. E vero che ciascuno deve conoscersi, purificarsi, giungere alla pienezza; ma non a vantaggio di se stesso, non a beneficio della sua felicità terrena o della sua beatitudine celeste, bensì in vista dell’opera che deve compiere sul mondo di Dio. 
Bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo. 
Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo. 
Ed è quanto il chassidismo rifiuta in modo assolutamente categorico, soprattutto quando si tratta di un uomo che ha trovato e sviluppato il proprio sé. 

Insegnava Rabbi Bunam: “Sta scritto: ‘E Kore prese . Ma cosa prese? Se stesso voleva prendere; perciò nulla di ciò che faceva poteva essere buono”. Per questo contrappose al Kore eterno il Mosè eterno, l’ ”umile”, l’uomo che, in quello che fa, non pensa a se stesso: “In ogni generazione ritornano l’anima di Mosè e l’anima di Kore. E se una volta l’anima di Kore si sottometterà di buon grado all’anima di Mosè, Kore sarà redento”. Così Rabbi Bunam vede in un certo senso la storia del genere umano in cammino verso la liberazione come un evento che si svolge tra questi due tipi di uomini: l’orgoglioso che, magari sotto l’apparenza più nobile, pensa a se stesso, e l’umile che in ogni cosa pensa al mondo. 
Solo quando cede all’umiltà l’orgoglio è redento, e solo quando questo è redento, il mondo a sua volta può essere redento. 
Dopo la morte di Rabbi Bunam, uno dei suoi discepoli - il Rabbi di Gher, appunto, dalla cui predica per il Giorno dell’Espiazione ho citato alcuni brani - afferma: “Rabbi Bunam aveva le chiavi di tutti i firmamenti. E perché stupirsene? All’uomo che non pensa a se stesso si consegnano tutte le chiavi”. E il più grande discepolo di Rabbi Bunam, colui che, tra tutti gli zaddik, fu il personaggio tragico per eccellenza, Rabbi Mendel di Kozk, disse una volta alla comunità riunita: “Cosa chiedo a ciascuno di voi? Tre cose soltanto: non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro agli altri, non pensare a se stessi”. 

Il che significa: 
- primo, che ciascuno deve custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri; 
- secondo, che ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi dal penetrarvi con un’indiscrezione impudente e dall’utilizzarlo per i propri fini; 
- terzo, che ciascuno deve, nella vita con se stesso e nella vita con il mondo, guardarsi dal prendere se stesso per fine. 

- Martin Buber -
da: "Il cammino dell'uomo", Edizioni Qiqajon







mercoledì 13 novembre 2019

Addormentati come fossi l'universo - Osho Rajneesh

Siedi in silenzio e medita sul fatto che non hai confini, i tuoi limiti sono i limiti dell'universo.
Sentiti espandere e in questa sensazione includi ogni cosa: il sole sorge dentro di te, le stelle si muovono dentro di te, gli alberi crescono e i pianeti appaiono e scompaiono in questo stato di consapevolezza espanso sentiti immensamente beato.
Quella diventerà la tua meditazione. 
Quindi ogni volta che hai tempo e non hai nulla da fare, siedi semplicemente in silenzio e sentiti espanso. 
Lascia cadere i tuoi limiti. Trascendi ogni limite.
All'inizio, per qualche giorno, sembrerà una follia, perché ci siamo troppo abituati ai nostri limiti. In realtà non ci sono confini. 

Il limite è un limite mentale. È tale perché noi crediamo che sia così.

Percepisci questa espansione oceanica il più spesso possibile e presto entrerai in sintonia.
A quel punto basterà un piccolo mutamento di prospettiva per far apparire quell' armonia. 
Ogni sera, quando vai a letto, addormentati in questa consapevolezza espansa.
Addormentati come se le stelle si muovessero dentro di te, come se il mondo aprisse e scomparisse dentro di te.
Addormentati come fossi l'universo.
AI mattino, non appena ti accorgi che il sonno se ne è andato, di nuovo ricorda questa espansione, alzati come fossi l'universo. E anche durante il giorno, ricordalo il più spesso possibile.


- Osho -
da: "Il libro arancione. Tecniche di Meditazione," 




A tutti noi viene insegnato ad essere colti, non ad essere innocenti o a percepire la meraviglia dell’esistenza; ci vengono insegnati i nomi dei fiori; degli alberi e non come entrare in comunicazione con loro, in sintonia con l’esistenza. L’esistenza è un mistero e non è accessibile a coloro che vogliono sempre analizzare, selezionare, ma solo a coloro che sono disposti ad innamorarsene, a danzare con lei.

- Osho Rajneesh - 



Ogni volta che ci attacchiamo 

a qualcuno o a qualcosa, 
in un modo o nell'altro

evitiamo di guardare noi stessi.
Di fatto,

il bisogno di attaccarsi

a qualcuno o a qualcosa
è un trucco per sfuggire a se stessi.
E più l'altro
diventa importante per noi,
più lo consideriamo
il centro della nostra vita,
più noi ci emarginiamo alla periferia.
Per tutta la vita
continuiamo a rimanere centrati sull'altro.
In questo modo il tuo Sè
non diventerà mai il tuo centro.

- Osho -




Buona giornata a tutti. :-)


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martedì 22 ottobre 2019

Il mistero dell'amore - Anselm Grün

Cambiare atteggiamento
Con ciò che vedo in modo nuovo posso relazionarmi anche in modo nuovo. 
Il modello interpretativo della fede conduce al modello comportamentale dell’amore. Ciò che ho riconosciuto come buono lo tratto anche bene, lo amo anche; ciò che mi è diventato caro a causa del nuovo modo di vedere, lo tratto con cautela e con dolcezza. 
La fede è la scoperta della soluzione di secondo ordine mediante la diversa interpretazione della situazione. 
L’amore è la realizzazione di questa soluzione. 
La fede vede, l’amore agisce. 
L’amore non solo tratta bene, ma fa anche bene; risveglia il bene che la fede ha scoperto nella diversa interpretazione della realtà, per la vita. 
L’amore cambia la realtà, la rende buona, configura il bene che c’è in essa. 
La fede interpreta diversamente, l’amore trasforma.
Su nessun altro termine si è scritto tanto come sul termine amore. 
Non intendo analizzare le varie definizioni dell’amore; mi limito a evidenziare l’aspetto suggerito dall’etimologia del termine: amore come avere caro e fare bene. Da questo punto di vista il sentimento gioca un ruolo subordinato. L’aspetto decisivo è l’azione, ma non un’azione esteriore, che ci si impone dall’esterno come comandamento o dovere, bensì un’azione che scaturisce da una visione. 
L’amore deve essere autentico, non artificiale, non deve essere una benevolenza di facciata. Ma ciò che rende autentico l’amore non è un traboccante sentimento di simpatia o di innamoramento, ma la fede nel bene che c’è nell’altro. 
L’amore non riguarda solo le persone ma, come affermava già Gesù, anche noi stessi e Dio. 
Ora vogliamo considerare brevemente questi tre aspetti:

Amare se stessi
Se credo di essere stato creato buono da Dio, se credo che lui mi vuole bene, mi accetta così come sono, devo comportarmi bene anche con me stesso. 
A cominciare dall’ascolto dei miei desideri e aneliti più intimi e dal godimento di ciò che mi fa veramente bene. 
Può essere anche una buona cena e un buon bicchiere di vino. Ma questo non soddisfa i miei bisogni più profondi. 
Devo ascoltare i miei veri desideri e aneliti. 
Devo ascoltare ciò che c’è nelle profondità del mio essere al punto da incontrarvi Dio e comprendere ciò che egli vuole da me.
È questo ciò che mi fa veramente bene, che risveglia in me la mia vita personale, assolutamente unica, non basata sulle aspettative degli altri e sulle richieste del mio Super­Io, ma originaria e autentica. 
È questa vita che devo godermi e cercare di sviluppare. 
Posso essere aiutato in questo dall’adozione di uno stile di vita personale, uno stile di vita sano che mi fa sentire bene, mi dà la sensazione di vivere personalmente e non fatto vivere da altri, di organizzare personalmente le mie giornate e la mia vita, di vivere nel momento presente, pienamente me stesso, pienamente presente a ciò che sto facendo e in grado di imprimere la mia forma a tutto ciò che faccio.
La sensazione di essere fatti vivere, trascinati e determinati da altri, ci rende infelici. L’amore per noi stessi consiste nell’usare bene il nostro tempo, affrontare le sue sfide e fare veramente nostro ciò che ci viene offerto dall’esterno. 
Quando abbiamo l’impressione di essere programmati da altri, di essere inseguiti dai nostri appuntamenti e dalle scadenze proviamo un senso di estraniazione. 
C’è qualcosa di estraneo che domina la nostra vita. L’amore dovrebbe trasformare ciò che è estraneo in qualcosa di proprio, di personale.
Se accetto liberamente come una sfida proveniente da Dio un lavoro che mi viene imposto dall’esterno, esso non è più per me un peso che mi grava sullo stomaco, del quale sbarazzarmi il prima possibile, ma diventa il mio lavoro. L’oggetto del lavoro mi è imposto da altri e al riguardo io non posso fare nulla. Ma il come lo faccio dipende da me. E prendendo personalmente in mano il come, trasformo anche l’oggetto. 
La pietra che scolpisco esprime ciò che c’è dentro di me. 
Il lavoro che mi viene imposto dall’esterno è una pietra in cui posso esprimere ciò che c’è dentro di me attraverso il mio modo di lavorarla. 
L’amore modella e plasma il dato, trasformandolo in una parte di me.

Amare se stessi significa accettarsi. 
Oggi ci si imbatte continuamente e ovunque in questo consiglio di accettarsi. Ma il problema è come farlo concretamente. Amare significa avere caro, maneggiare bene: è qualcosa che ha a che fare con le mani. 
Anche l’accettare richiede le mani; posso accettare solo con le mani: quando prendo qualcosa in mano, esso di­venta parte di me. Accettare se stessi significa prendersi in mano, trattarsi affettuosamente, bene. 
L’amore è qualcosa di manuale, qualcosa di fisico. 
Mi tratto bene, quando tratto bene il mio corpo; non devo rammollirlo, ma fare in modo che possa lasciare trasparire Dio. Devo ascoltarlo. Attraverso la malattia, le menomazioni, le sofferenze mi dice qualcosa su me stesso. Devo accettare, prendere in mano, far diventare una parte di me ciò che mi dice e riconciliarmi con esso.
Lo stesso vale per i pensieri che affiorano in me. 
Devo accoglierli e accettarli come una parte di me. Ma devo anche rendermi conto se i pensieri mi assalgono dall’esterno e mi impediscono di essere me stesso. In questo caso devo combattere anche contro i pensieri e introdurre in me solo i pensieri buoni, quelli che possono guarirmi. 
I monaci cercavano di riempirsi di buoni pensieri leggendo la Bibbia. 
La loro lettura della Bibbia non era dettata solo dall’amore per Dio, ma anche dall’amore per se stessi. Infatti, la Bibbia scaccia i nostri pensieri negativi e ci guarisce con i pensieri di Dio, che ci permettono di scoprire il nostro vero nucleo. Ogni forma di ascesi è, in definitiva, amore di se stessi. 
Ci trattiamo bene, cerchiamo di incrementare il nucleo buono e di ridurre con gli strumenti ascetici ‑ disciplina, preghiera, lettura della Bibbia, digiuno, ecc. ‑ quel groviglio di spine che ci impedisce di svilupparci e di fiorire.

Amare Dio
Che cosa vuole dire Gesù quando afferma che dobbiamo amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’a­nima, con tutti i nostri pensieri e con tutte le nostre forze? (Mc 12,30). 
Tutti conosciamo questi comandamenti. Ma che cosa accade se amo Dio con tutto il cuore? Nel suo discorso di addio Gesù dice: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). Gesù definisce l’amore in termini di comportamento, di azione. Osservare i comandamenti significa trattare se stessi, la propria vita, il proprio tempo, la creazione e gli altri in modo corrispondente a Dio. 
L’amore di Dio si manifesta nel giusto trattamento delle realtà che lo riflettono, della sua creazione, soprattutto della sua creazione più alta, l’uomo.
Noi rischiamo continuamente di scambiare le realtà in cui Dio si riflette per Dio stesso, di perderci in esse al punto da conferire loro un significato e valore assoluto. Così diventano per noi degli idoli. Ciò sconvolge e sovverte ogni cosa. 
Diventiamo schiavi, schiavi del successo, del danaro, dei beni materiali, del riconoscimento, schiavi degli uomini che adoriamo, che diventano tutto per noi. 
Amare Dio con tutto il cuore significa mettere Dio al primo posto, trattare tutto in modo rispondente alla realtà, come ciò che ci è stato donato da Dio e non come Dio stesso. 
Perciò, amare Dio significa, in ultima analisi, relazionarci in modo rispondente alla realtà con le persone e le cose, con il nostro tempo e la nostra vita. Se la mia salute diventa il sommo bene, ruoto esageratamente attorno a me stesso, tutte le mie energie sono impegnate a evitare che qualcosa mi faccia male e così la salute diventa per me un idolo. E io non mi tratto già più come dovrei. 
Se amo Dio, faccio attenzione anche alla mia salute, non mi distruggo con il voler raggiungere a tutti i costi que­sto o quell’obiettivo, ma mi concedo anche tempo libero e riposo. E tuttavia non ruoto attorno a me stesso e alla mia salute. 
Sono libero di svolgere anche un servizio, di accettare anche la malattia dalle mani di Dio come qualcosa in cui egli mi parla, mi indica i miei limiti, il mio disordine interiore, o semplicemente come qualcosa che egli nel suo imperscrutabile disegno pretende da me, forse per espiare un po’ di male in questo mondo.
L’amore di Dio si dimostra anche nel comportamento verso la sua creazione. Se tratto il mondo che mi circonda come dono di Dio, lo curo e custodisco, non lo saccheggio, non mi atteggio a suo padrone. 
Il Signore della creazione è Dio. Nella mia relazione con la creazione faccio sempre attenzione a incontrarvi qualcosa di Dio. 
La sua creazione è impregnata del suo Spirito, essa riflette la sua gloria e la sua potenza. Perciò, nella creazione incontro tangibilmente, nel senso più vero del termine, Dio. In essa tocco veramente un lembo di Dio, pieno di rispetto reverenziale e sapendo che il mio amore per Dio, Signore della creazione, si manifesta nel modo in cui amo la sua creazione.
Ma posso amare Dio solo nelle realtà che lo riflettono, nei miei simili, nella creazione, in me stesso? Non esiste anche una relazione diretta con Dio? 
I salmi affermano che noi amiamo Dio meditando i suoi comandamenti, osservando i suoi grandi interventi nella storia, concordando con ciò che ha creato nella creazione e ha fatto nella storia. 
L’amore di Dio si manifesta quindi nel tempo che gli dedichiamo. In questo tempo ci intratteniamo consciamente con colui che sta dietro ogni creazione e ogni storia e anche dietro la nostra vita. Ora que­sto mistero che oltrepassa ogni realtà visibile viene visto nella Bibbia come una persona, viene descritto con tratti molto umani, come un Dio degno di amore, ma spesso anche come un Dio incomprensibile, sulla cui azione bisogna riflettere a lungo, con il quale bisogna combattere e lottare a lungo, prima di arrendersi e credere di potersi affidare alle sue mani amorose. 
Il mondo e gli uomini lasciano trasparire Dio solo quando riserviamo del tempo unicamente a lui, lo ascoltiamo nel silenzio per poterci avvicinare maggiormente a questo mistero, comprenderlo meglio e diventare infine una cosa sola con lui. Amare Dio significa in ultima analisi diventare una cosa sola con lui.
L’amore non solo interpreta diversamente, ma trasforma. Prende in mano Dio e il suo indescrivibile mistero in modo tale da diventare una cosa sola con lui. L’amore mira proprio a questo: diventare una cosa sola con lui, sperimentare che la nostra vita è sana solo quando diventiamo una cosa sola con Dio. E per sperimentarlo dobbiamo dimenticare il mondo, gli uomini e noi stessi e abbandonarci unicamente a Dio, immergerci in lui, cadere in ginocchio davanti a lui e adorarlo. 
Nell’adorazione non vogliamo raggiungere più nulla per noi stessi. 
Non chiediamo nulla a Dio, neppure la soluzione dei nostri problemi. Dimentichiamo noi stessi e i nostri problemi, non ci rimproveriamo e non ci giustifichiamo davanti a Dio. 
Smettiamo di ruotare attorno a noi stessi e ci prostriamo semplicemente, perché Dio ci tocca, perché egli è più importante della nostra costituzione personale. 
In tutti noi si nasconde questo ardente desiderio di poterci finalmente dimenticare e di essere toccati da Dio al pun­to da esclamare: Dio solo basta. Allora possiamo presagire ciò che significa amare Dio per se stesso.

Amare il Fratello e la Sorella
Il comandamento dell’amore del prossimo sembra oltrepassare le nostre forze. Come posso amare una persona che mi è antipatica, che suscita in me sentimenti negativi? Non posso dominare i miei sentimenti, non posso essere falso con me stesso e con l’altro. Se si parte dalla concezione dell’amore come trasformazione della realtà diversamente interpretata o buon trattamento di ciò che è già stato visto come buono, l’amore non ci costringe a rimuovere i nostri sentimenti negativi e ad adottare un atteggiamento artificiosamente benevolo verso tutte le persone.
Dobbiamo unicamente costringerci a vedere diversamente l’altro. 
Dobbiamo mettere in discussione i nostri pregiudizi e cercare di vedere l’altro con gli occhiali della fede e di credere all’esistenza in lui di un nucleo buono. Non possiamo costringerci ad amare. L’amore deriva dalla fede. Il nostro dovere è quello di accordare il nostro comportamento con il nostro modo di vedere. Altrimenti siamo divisi in noi stessi. Ma non abbiamo bisogno di costringerci a provare sentimenti di amore. La scoperta di un ardente desiderio del bene nell’altro genera anche in noi sentimenti più positivi. Amare significa allora prendere sul serio l’ardente desiderio di bene che esiste nell’altro, scoprire sempre più il bene che c’è in lui, fare in modo che il bene che c’è in lui abbia il sopravvento su ciò che c’è di malato e malsano, di malvagio e oscuro, in modo che tutto in lui diventi buono. Amare significa rendere buono l’altro, trasformarlo sempre più in una persona buona.
Se la fede è il riconoscimento di una soluzione di secondo ordine, l’amore realizza questa soluzione. Come la fede, anche l’amore oltrepassa il livello al quale ci si abbandona a giochi senza fine. Un gioco senza fine è il gioco della vittoria e della sconfitta. Molte persone possono relazionarsi fra loro solo a livello di vittoria e sconfitta. O sono più forte o sono più debole dell’altro, o vinco io o vince lui. Uno deve sempre perdere. Ma questo è un gioco senza fine. Infatti, dopo aver perso lotto per vincere la volta successiva. E se non posso vincere contro lo stesso avversario, cerco qualcun altro che posso vincere. Questo perché non riesco a sopportare di essere un eterno perdente.
L’amore, abbandona questo livello di vittoria e sconfitta, lo oltrepassa e si relaziona con l’altro a un livello superiore. Lo vede non come concorrente, ma come qualcuno che nasconde in sé molto bene. Ed è interessato a rafforzare il bene che c’è in lui, a risvegliare le sue possibilità e a lasciarlo vivere. L’amore non ha bisogno della sconfitta dell’altro per poter credere nel proprio valore e nella propria forza. Chi ha trovato in se stesso, o meglio in Dio, il proprio fondamento e il proprio valore può lasciare che anche l’altro affermi il suo valore. Questo è meno faticoso della continua pressione di dover trionfare sull’altro.
Oltrepassando il livello di vittoria e sconfitta evito la continua lotta per affermare me stesso. E d’un tratto scopro molte possibilità più positive di relazionarmi con l’altro. Posso gioire del suo valore.
Lungi dallo sminuire il mio valore, questo mi permette di partecipare alla sua ricchezza. Occorre solo molta fantasia per oltrepassare il livello di vittoria e sconfitta e pervenire così a una soluzione di secondo ordine. In realtà, l’amore consiste essenzialmente nel lasciarsi guidare dalle intuizioni, nell’escogitare soluzioni fantasiose, nello scoprire nuove strade e possibilità. L’amore rende inventivi. A volte è persino un po’ pazzo. Ma le sue soluzioni pazze sono più umane del gioco infinito che si svolge a livello di vittoria e sconfitta.
Spesso ci rendiamo più difficile l’amore per gli uomini, fissandoci ideali troppo alti. Ciò vale per la nostra relazione con il prossimo. Ci proponiamo continuamente di amare l’altro. E siamo mortalmente delusi dal fatto che l’altro adotta un atteggiamento diametralmente opposto, ci resiste e addirittura ci combatte. 
Spesso confondiamo l’amore con l’intesa, con l’armonia. Sarebbe così bello se tutti potessero vivere armoniosamente insieme. Ma questa è un’utopia. Desideriamo profondamente l’armonia e pensiamo normalmente che siano gli altri a disturbarla o addirittura a distruggerla. 
Così d’un tratto troviamo difficile continuare ad amare coloro che rovinano il gioco.
Il vero amore non pone condizioni agli altri. Li prende così come sono. Vede con lucidità ciò che c’è in loro: scontentezza, aggressività, sete di potere, brama di riconoscimento, intrighi, ma anche un ardente desiderio di bene. L’amore non si illude, trasforma il dato di fatto. Risveglia il bene nelle persone malate e distrutte. L’amore non teme i conflitti, perché oltrepassa il livello del conflitto. Anche nel conflitto si chiede che cosa faccia veramente bene all’al­tro. Poiché l’amore supera il livello, nel conflitto non si aggrappa con i denti alle emozioni, ma continua coerentemente a cercare la vera soluzione.
L’ardente desiderio di armonia evita la dura realtà e si rifugia in un mondo apparente. L’amore affronta la realtà, la accetta e la trasforma. Si può cambiare solo ciò che si è accettato. L’amore segue questa legge fondamentale della vita, accettando ciò che trova come dato di fatto.
Le concezioni utopiche spesso rendono più difficile l’amore fra i coniugi o fra gli amici. Si stravede per l’amore reciproco e poi si cade dalle nuvole quando il partner non ha lavato i piatti. Il sublime volo dell’amore finisce nelle banalità della vita quotidiana. Per Benedetto da Norcia l’amore fraterno si manifesta molto concretamente nella disponibilità ad accettare i compiti quotidiani e a svolgerli con coscienza e cura. L’amore deve incarnarsi e assumere la realtà della vita. La realtà è spesso dura e formata da mille cose di poco conto. Incontro l’altro non solo nei suoi sublimi pensieri e sentimenti, ma anche nelle sue abitudini che mi innervosiscono.
Del resto, per Benedetto l’amore si manifesta anche nel (sop)portare le reciproche debolezze e i reciproci difetti (Regola di Benedetto 72). 
Invece di abbandonarsi a concezioni utopiche, l’amore accetta la realtà dell’altro e la concreta convivenza, non chiude gli occhi davanti alla realtà, ma oltrepassa il livello al quale ci si urta reciprocamente. Esso vede oltre il visibile ciò che è invisibile nell’altro, la sua buona intenzione, il suo nucleo buono, le sue possibilità positive. E lo tratta a partire da questo livello. 
Così si relativizzano molti screzi e piccoli conflitti che non diventano più così tremendamente importanti, non vengono negati e rimossi, ma accettati e trasformati. 
L’utopia finisce in rassegnazione, mentre l’amore affronta attivamente i problemi della vita quotidiana, con molta fantasia, con pazienza, con un respiro lungo e con umorismo, che costituisce una tipica soluzione di secondo ordine. 
Queste peculiarità dell’amore sono state magistralmente descritte da Paolo nella Lettera ai Corinti: «La carità è longanime (makrothymos, magnanimitas, cuore grande, lungo respiro), la carità è benigna (chresteuetai, rende buoni) [...] tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4.7).
L’amore affronta la realtà, le tiene testa, la sopporta e la cambia, perché crede al bene che Dio vi ha immesso. E perché confida che Dio può cambiare tutto con il suo amore.

- Padre Anselm Grün - 



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martedì 24 settembre 2019

Strategia dell’asino

C’erano una volta un uomo anziano e un vecchio asino. 
Un giorno, l’asino cadde in un pozzo ormai esaurito, ma profondo. 
Il povero animale ragliò tutto il giorno e l’uomo cercò di pensare a come tirarlo fuori dal pozzo. Alla fine, però, pensò che l’asino era molto vecchio e debole, senza contare che da tempo aveva deciso di riempire di terra il pozzo che era ormai prosciugato. 
Decise di seppellire là il vecchio asino. 
Chiese a diversi vicini di aiutarlo; tutti presero una pala e cominciarono a gettare terra nel pozzo. L’asino si mise a ragliare con tutta la forza che aveva. Dopo un po’, però, tra lo stupore generale, dal pozzo non venne più alcun suono. Il padrone dell’asino guardò nel pozzo, credendo che l’asino fosse morto, ma vide uno spettacolo incredibile: tutte le volte in cui veniva gettata una palata di terra nel pozzo, l’asino la schiacciava con gli zoccoli. 
Il suo padrone e i vicini continuarono a gettare terra nel pozzo, e l’asino continuò a schiacciarla, formando un mucchio sempre più alto, finché riuscì a saltare fuori.




Una scimmia da un albero gettò una noce di cocco in testa ad un saggio. L’uomo la raccolse, ne bevve il latte, mangiò la polpa e con il guscio si fece una ciotola.






“Fin da quando nasciamo gli altri ci dicono che il mondo è in un determinato modo, e naturalmente noi non abbiamo altra scelta che accettare che il mondo sia come gli altri ci hanno detto che è. 
Il bambino apprende come deve percepire il mondo per essere pienamente integrato. 
Passo dopo passo, gli viene resa familiare una descrizione del mondo che egli impara a percepire, mantenere e difendere come “la vera realtà”. 
La ragione induce gli uomini a dimenticare che la descrizione è soltanto una descrizione, ma prima che arrivino a capirlo, hanno intrappolato la loro essenza in una gabbia da cui emergono raramente nel corso della vita.”

- Carlos Castaneda -




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sabato 24 agosto 2019

Se smetti di tormentarti ritrovi la gioia di vivere - Dott. Raffaele Morelli

I grandi maestri mi hanno insegnato che purtroppo tutti noi tendiamo spesso a condurre una vita psichica che assomiglia a quella del bruco. 
Come lui, viviamo sulla terra, che diventa il nostro confine. Che cosa accade in natura? 
Un bel giorno il bruco, senza alcun programma e senza sapere perché, emette una sostanza che lo "imprigiona". Diventa un bozzolo e da un piccolo foro, da quella gabbia apparente esce la farfalla. 
Non correggere, contempla! 
Anni fa, alcuni ricercatori, vedendo la fatica con la quale la farfalla fuoriusciva da quel piccolo foro, pensarono di allargarlo per favorirne la nascita. 
Effettivamente, la creatura usciva più in fretta, ma poi non volava. 
Questo ci insegna che le nostre difficoltà, i disagi, i dolori sono analogicamente simili al parto della farfalla e come tali vanno viste. 
Hanno una funzione che va rispettata. 
Quando nasce, la farfalla vola di fiore in fiore, è un altro essere, del tutto differente dal bruco che l'ha generata. 
In ognuno di noi c'è un'altra persona, diversa da quella che mettiamo in campo abitualmente: occorre ricordarlo proprio nelle difficoltà, ogni volta che veniamo abbandonati, nelle crisi coi figli, nei problemi sul lavoro e così via. La vera scommessa è diventare chi sei destinato a essere. 
La partita decisiva di ognuno non ha a che vedere con l'essere una buona moglie o un buon marito, nell'avere rapporti sempre sereni con i figli o in ufficio. 
Non siamo nemmeno al mondo per essere buoni per forza, ma per far nascere la farfalla che siamo destinati a diventare. 
Dobbiamo vivere dimensioni e capacità che il bruco non può conoscere. 
Se una donna si sente distrutta, finita, disperata ma può ancora immaginare o sognare il volto di una vecchia o della mamma o della nonna, quella donna non è perduta, perché sa entrare in contatto con il lato sapiente dell'anima, rappresentato simbolicamente da quei volti. 
Quel lato sa "produrre" la farfalla, la farfalla che sei, unica e irripetibile. 
Dire addio ai tormenti è sempre possibile 
Ogni volta che ci tormentiamo per qualcosa che ci è accaduto, per un trauma subito o una delusione, dovremmo ribaltare il modo di pensare e vedere quel dolore come il segno di una metamorfosi in atto, un processo dove muoia il bruco delle identificazioni con l'esterno ("io sono così perché mi è capitato questo o quello") e nasca la farfalla, che vola solo dove deve andare davvero. 
Sarebbe un vero peccato che noi diventassimo farfalle ma ci imponessimo di non volare perché il bruco, il verme che striscia sulla terra ci sembra più tranquillo e al sicuro... 

- dott. Raffaele Morelli -
psichiatra, psicoterapeuta
da Riza psicosomatica Luglio 2019



La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi. 

- Danny Kaye - 



Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto. 

- Oscar Wilde -





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