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giovedì 5 aprile 2018

Father forgets - W. Livingstone Larned

La paternità di Dio 

L’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L’assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi. 
Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi propriamente «padre», quale sia la vera natura del Padre che è nei cieli. 
Critici della religione hanno detto che parlare del «Padre», di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità. 
Pensiamo alla parola di Gesù nel sermone della montagna dove dice: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). 
È proprio l’amore di Gesù, il Figlio Unigenito - che giunge al dono di se stesso sulla croce - che ci rivela la vera natura del Padre: Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio.

- papa Benedetto XVI - 
Catechesi dell’Udienza generale, Piazza San Pietro, 23 maggio 2012


Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormen­do con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte. 
Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono se­duto a leggere in biblioteca, un'ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.
E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. 
Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.
A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai comin­ciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: «Ciao, papino!» e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: «Su diritto con la schiena!». 
E tutto è ricominciato da capo nel tardo pome­riggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze buca­te. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. 
Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell'offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale impaziente per l'interruzione sei rimasto esitante sulla porta. "Che vuoi?", ti ho aggredito brusco. Tu non mi hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l'affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be', figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un'angoscia terri­bile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a tro­vare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? 
Nient'altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergo­gna.

E' una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripeter­mi, come una formula di rito: «E' ancora un bambi­no, un ragazzino!». Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei an­cora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa sulla sua spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.

- Livingstone Larned - 
da: "Orme sul cuore" di Annalisa G. Romano



Dio, Papà mio

Presenza potente
Presenza paziente
Presenza tenera
Presenza amante
La tua voce è silenzio intenso
I tuoi doni sono campi fertili
Le tue prove sono baci violenti
I tuoi comandi proposte d'amore
Amore sconvolgente
Amore prepotente
Amore esigente
Amore tutto per me
Ti sono figlia e non più sola
Sono l'amata e tu l'amante
Sono l'eletta e tu il Signore
Ti sono cara e tu il mio Amore
In te son morta
Con te restata
Per te risorta.

- Flavia Lucchini -


Buona giornata a tutti. :-)




martedì 20 marzo 2018

Il figlio può essere un barbaro - Antoine de Saint Exupéry

Il figlio può essere un barbaro.
Senza l’opera di trasmissione dei significati della vita, da una generazione all’altra, le nuove generazioni saranno solo dei barbari accampati nel nostro territorio. 
Non capiranno, non conserveranno e non trasmetteranno più niente di quello che ha alimentato la vita dei loro avi. 
E la vita perderà il suo fervore e il suo significato e il collegamento al nodo divino che unisce le cose.
Se mancherà questo, la nuova generazione si accamperà barbaramente nella città che ti avrà presa. 
Quale gioia possono procurare a questi barbari i tuoi tesori? 
Essi non sanno servirsene, poiché non posseggono la chiave del tuo linguaggio. Per quelli che sono emigrati nel regno della morte, questo villaggio era come un’arpa, e i muri, gli alberi, le fontane e le case avevano il loro significato. Ogni albero aveva la sua storia, ogni casa le proprie usanze e ogni muro era diverso per via dei suoi segreti. 
Quando facevi la tua passeggiata era come se componessi un brano musicale, traendo il suono desiderato da ogni tuo passo. 
Ma il barbaro accampato nel tuo villaggio non sa farlo vibrare. 
Egli vi si annoia, e, nell’impossibilità di comprendere, abbatte i tuoi muri e distrugge i tuoi oggetti. 
Per vendetta contro lo strumento di cui non sa servirsi, vi appicca il fuoco, che lo ripaga almeno con un po' di luce. 
Dopo di che si scoraggia e sbadiglia. Poiché è necessario conoscere quello che si brucia, perché la fiamma sia bella. Così la fiamma del cero acceso davanti al tuo Dio. Ma la fiamma stessa della tua casa non dirà nulla al barbaro poiché non è la fiamma di un sacrificio. 
Perciò l’immagine di una generazione installatasi come un’intrusa nel guscio dell’altra mi ossessionava. 
E mi sembravano essenziali quei riti che nel mio impero obbligano l'uomo a tramandare o a ricevere la propria eredità. 
Io ho bisogno di abitanti nel mio impero, non di campeggiatori che non provengono da nessun posto. 

- Antoine de Saint Exupéry - 
Da:  “Il figlio può essere un barbaro” in Cittadella


Anche il più turbolento, il più violento, il più ribelle dei figli è tale solo con l'espressa autorizzazione del padre, ed è il padre che, per una ragione a lui ignota, ha bisogno di quel sobillatore, di quella spina piantata nel cuore della famiglia, e cioè di quel focolaio di opposizione grazie a cui vengono smentite tutte le categorie semplicistiche della volontà e del carattere.

- Muriel Barbery - 



Proteggimi, Signore, come un tesoro, come un dono a lungo desiderato.

Proteggimi, Signore e scrivi il mio nome sul palmo della tua mano, perchè io sappia di esistere.

All'ombra delle tue ali, la paura si scioglie in un canto.


I figli sono come gli aquiloni,
passi la vita a cercare di farli alzare da terra.
Corri e corri con loro
fino a restare tutti e due senza fiato…
Come gli aquiloni, essi finiscono a terra…
e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni.
Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri
che presto impareranno a volare.

Infine sono in aria:
gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne.
E a ogni metro di corda
che sfugge dalla tua mano
il cuore ti si riempie di gioia
e di tristezza insieme.
Giorno dopo giorno
l’aquilone si allontana sempre più
e tu senti che non passerà molto tempo
prima che quella bella creatura
spezzi il filo che vi unisce e si innalzi,
come è giusto che sia, libera e sola.

Allora soltanto saprai
di avere assolto il tuo compito.


- Erma Bombeck -


Buona giornata a tutti. :-)





giovedì 18 gennaio 2018

15 consigli per educare i nostri figli

Dal Metodo educativo di Maria Montessori abbiamo estrapolato 15 principi che possono essere considerati validi anche oggi, a distanza di quasi un secolo:

1. Educate con l’esempio: mamma e papà devono essere il migliore esempio per i figli. I bambini sono come spugne, apprendono da tutto ciò che li circonda: non solo dalle parole, ma soprattutto dai fatti.

2. Non criticateli sempre e soprattutto in pubblico: diventeranno degli adulti frustrati e saranno portati a giudicare il prossimo.

3. Elogiateli in maniera sincera per i comportamenti positivi che mettono in atto. Gli elogi li aiuteranno ad imparare a dare valore alle cose.

4. Non siate ostili e arrabbiati in loro presenza o nei loro confronti. Tenderanno a litigare più frequentemente se avranno a che fare con dei genitori perennemente arrabbiati.




5. Non ridicolizzateli mai o avranno una bassa autostima che sfocerà in una forte timidezza che difficilmente riusciranno a debellare nel corso del tempo.

6. Abbiate fiducia nelle loro capacità e nei loro sogni, aiutateli ad accrescere la loro autostima in modo da potersi relazionare agli altri dando loro fiducia a loro volta.

7. Mai sottovalutarli e dire loro che non potranno mai riuscire ad ottenere un obiettivo che si prefiggono o rischieranno di sviluppare sentimenti di frustrazione e tristezza, oltreché sensi di colpa.

8. Ascoltateli e rendeteli partecipi: si sentiranno importanti e svilupperanno fiducia in sé stessi poiché capiranno che tenete in alta considerazione le loro idee e opinioni.

9. Date loro tutte le cure e l’amore di cui siete capaci. Sentendosi amati impareranno a trovare l’amore nel mondo.


10. Non parlate mai male dei vostri bambini, né in loro presenza, né tantomeno quando sono assenti.

11. Curate la crescita emotiva dei vostri figli: un genitore ha il dovere di prestare grande attenzione alle competenze sociali ed emozionali proprie e dei propri figli, coltivando con impegno queste abilità del cuore.

12. Non ignorateli mai, ma rispondete sempre quando vi parlano o cercano di comunicarvi qualcosa.

13. Tutti sbagliamo, anche i bambini, devono poterlo fare per imparare a vivere: davanti ai loro errori, rispettateli comunque. Gli sbagli saranno corretti nel tempo.

14. “Aiutiamoli a fare da soli”: aiutateli quando è necessario, ma abbiate anche la pazienza di lasciarli liberi di commettere errori in modo che trovino la strada migliore da sé.
15. Rivolgetevi ai vostri figli con gentilezza, con positività e affetto: è sicuramente il primo passo per garantire loro un sano equilibrio affettivo. Cercate sempre di offrire loro il meglio di voi. Ve ne saranno sempre grati!


E tu, lo sai cosa sei?
Sei una meraviglia.
Sei unico.

In tutti gli anni che sono trascorsi
non c'è mai stato un altro bambino come te.

Le tue gambe, le tue braccia,
le tue dita abili,
il modo in cui ti muovi.

Potrai diventare uno Shakespeare,
un Michelangelo,
un Beethoven.

Hai la capacità di fare qualunque cosa:
ricavare cibo dalla terra o fare,
di tanti piccoli mattoni,
una grande casa;
guidare un treno,
pilotare un aereo
o insegnare matematica.

Si, sei una meraviglia.


E quando crescerai,
potrai allora far del male a un altro che sarà,
come te, una meraviglia?


Bisogna lavorare - tutti noi dobbiamo lavorare -
per rendere il mondo degno dei suoi bambini.

- J.Canfield & M.V.Hansen -

Fonte: “Brodo caldo per l'anima” di  Jack Canfìeid e  Mark Victor Hansen,  Armenia Edizioni, 2004


A Francesca. 
Che il Signore ti benedica e ti protegga.





lunedì 18 settembre 2017

Quando i figli ci “divorano” - don Bruno Ferrero


Il guaio di avere un figlio è che poi uno ce l’ha davvero. 
E un figlio non è un bambolotto, né un piccolo robot e neppure un cagnolino. Quando un bambino diventa esasperante, non si può premere un bottone per farlo smettere.
La salmodia dei genitori che si sentono “divorati” dai figli riempie bar e uffici: «Mia figlia, che ha due anni, mi segue dappertutto, e non fa che chiedere», «Non fa altro che ribellarsi tutto il giorno, siamo sempre in conflitto. Quando non ne posso più, lo chiudo in camera sua. E’ una lotta continua, estenuante», «Piange per un niente. Ho i nervi a pezzi», «Per qualunque cosa entra in conflitto, dice no a tutto, è violento, piange, picchia, si rotola per terra, mai una volta che le cose si svolgano in modo tranquillo», «Sono tre anni che non riesco a dormire una notte intera!», « Mia figlia mi sta tra i piedi tutto il giorno: non mi molla un attimo, mi sta appiccicata. Mi succhia il sangue da quando è nata». 
Molti genitori hanno davvero la sensazione che i figli li mangino, che si nutrano del loro tempo, delle loro attenzioni, dei loro soldi, della loro vita. Permettere che questa sensazione si faccia strada nei rapporti quotidiani può rendere la vita pesante e creare un effetto “tunnel” velenoso. I genitori si sentono usati e non riescono più a godere il tempo trascorso con i figli, diventa così difficile anche regalare loro gesti d’amore e di tenerezza.

Possono essere utili alcune semplici riflessioni.

La prima cosa da fare è liberarsi dagli stereotipi che condizionano e mortificano:

- Quello della donna pimpante, in piena forma, che si divide tra figli, marito, lavoro, sempre calma e disponibile, tutto amore per i suoi cari.
- Quello dell’uomo dinamico, che si divide tra moglie, figli, lavoro e si destreggia  allegramente tra cellulare, carrozzina, giocattoli.
- Quello della famiglia «Mulino Bianco» dove è tutto perfetto, a colazione il sole brilla e tutti sono belli, gentili e allegri.

Si tratta di prendere seriamente la realtà: nessuno ha mai detto che sia facile essere genitori, non per questo deve essere considerato un lavoro forzato: non si è genitori per dovere. 
C’è  una certa normalità nel sentirsi di tanto in tanto nervosi, consumati da coloro che vivono con noi. 
Imparare a convivere significa necessariamente mettere in conto di imparare a gestire le proprie aggressività. 
Non esiste amore vero senza trattamento adeguato dell’ aggressività in cui possano essere superati il conflitto, lo scontro, la critica e questo sia nei rapporti genitori-figli, sia nei rapporti di coppia o di amicizia.

I genitori hanno però il diritto di sbuffare, quanto più potranno esprimere e soprattutto condividere le proprie esasperazioni, tanto meno terranno tutto nascosto dentro di sé e lo faranno pesare sui figli.

- È importantissimo però ricordare e raccontare, tutte le volte che si può, i momenti felici e le intense emozioni vissuti con i figli. 
Il potere del ricordo è trasformante.
- Amare non significa dare tutto e permettere tutto.
- Essere un bravo genitore non vuol dire accettare qualunque cosa.
- Significa non temere di dire “no”.
- Significa farsi rispettare e non lasciarsi divorare sempre.
- Significa dare senza perdersi.
- Anche i figli devono essere accompagnati a poco a poco ad accettare il principio di realtà e la realtà esteriore.

Bisogna far uscire i figli  dall'illusione dell'onnipotenza: è questa una delle missioni dei genitori.

I limiti posti nel modo giusto strutturano e non traumatizzano. Un fiume senza sponde si trasforma in una palude. Anche una famiglia. 
Il genitore che vuole essere sempre e solo buono, a costo di crollare, trasmette un messaggio ambiguo. Ciò che il bambino registra non è di avere un genitore buono, bensì fragile, cosa nient’affatto rassicurante.
I genitori devono essere felici della propria vita di uomo o di donna per non chiedere ai figli ciò che non possono dare, tenersi alla giusta distanza da loro, non essere né troppo lontani, né troppo assenti, né troppo intrusivi. Allevare un figlio non vuol dire cercare di conquistarlo. 
Significa aiutarlo a non farsi sottomettere dall'onnipotenza delle sue pulsioni, a imparare a rinunciare o a rimandare la soddisfazione dei suoi desideri.

È importantissima una buona gestione del tempo.
La vita familiare richiede un minimo di organizzazione o cola a picco nello stress. 

È vitale evitare lo zapping frenetico da un'attività all'altra. 
I genitori sappiano prendersi il tempo di respirare, di creare una camera di decompressione per riprendere fiato quando non se ne può più. 
È salutare accorgersene e cercare allora di far calare la pressione prima di rientrare in contatto con i figli: fermarsi un minuto a gustarsi un caffè, telefonare, leggere qualche pagina, non correre, camminare lentamente mentre si va all'asilo, ascoltare musica, ecc.

Sapendo che talvolta bisognerà sacrificare le faccende domestiche e le commissioni per fare il genitore: per ascoltare, per dare e per amare i propri figli come anche per giocare, ridere, fare i “matti”. 
È importante trasformare i momenti obbligati in momenti di condivisione, facendo dei piccoli incarichi domestici occasioni di scambio e di educazione concreta alla responsabilità: in famiglia tutti devono dare una mano.

È necessario anche aiutare il bambino ad acquisire la capacità di stare da solo per periodi progressivamente più lunghi via via che cresce, sviluppando in lui il gusto della lettura, della passione per qualche attività. Bisogna anche aiutarlo a inserirsi nell’oratorio, in una squadra sportiva, ecc. in modo che il ritrovarsi insieme come famiglia sia sempre un momento di intenso e vero piacere.

- don Bruno Ferrero -





                                                            Buona giornata a tutti. 




sabato 16 settembre 2017

da: "Lettera a un bambino mai nato" - Oriana Fallaci

Stanotte ho saputo che c'eri: una goccia di vita scappata dal nulla. 
Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d'un tratto, in quel buio, s'è acceso un lampo di certezza: sì, c'eri. Esistevi. 
È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. 
Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. 
Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. 
È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi son sempre posta l'atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando "Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?". 
La vita è una tale fatica, bambino. 
È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. Eppure darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. 
La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell'acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. 
La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. 
Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. 
Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d'avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente. 
Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l'altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? 
Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l'esclamare che nascere è meglio di non nascere. Tuttavia è lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non è come metterti al mondo per me stessa e basta? 
Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te.

- Oriana Fallaci -
da: "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli editore, 1975




Molte donne si chiedono: metter al mondo un figlio, perché?
Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia?
E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra.

- Oriana Fallaci -
da: "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli editore, 1975





Sono nato perché Dio mi ha voluto

Dal momento che ha creato il mondo,
Dio mi ha voluto
e ha atteso tutto questo tempo
per darmi alla vita.

Mi ha voluto per amarmi,
mi ha voluto perché anch'io
conoscessi l'Amore 
e ne fossi attratto per l'eternità.

- Ernesto Olivero -
Troppo Forte, LDC