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martedì 29 gennaio 2019

Le mura di Anagoor - Dino Buzzati

Nell’interno del Tibesti una guida indigena mi domandò se per caso volevo vedere le mura della città di Anagoor, lui mi avrebbe accompagnato. 
Guardai la carta ma la città di Anagoor non c’era. Neppure sulle guide turistiche, che sono così ricche di particolari, vi si faceva cenno.
Io dissi: «Che città è questa che sulle carte geografiche non è segnata?».
Egli rispose: «È una città grande, ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata perché il nostro Governo la ignora, o finge di ignorarla. 
Essa fa da sé e non obbedisce. Essa vive per conto suo e neppure i ministri del re possono entrarvi. 
Essa non ha commercio alcuno con altri paesi, prossimi o lontani. Essa è chiusa. 
Essa vive da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia mai uscito non significa forse che vi si vive felici?».

«Le carte» io insistetti «non registrano nessuna città di nome Anagoor, ciò fa supporre che sia una delle tante leggende di questo paese; tutto dipende probabilmente dai miraggi che il riverbero del deserto crea, nulla di più.»
«Ci conviene partire due ore prima dell’alba» disse la guida indigena che si chiamava Magalon, come se non avesse udito. «Con la tua macchina, signore, arriveremo in vista di Anagoor verso mezzodì. Verrò a prenderti alle tre del mattino, mio signore.»
«Una città come quella che tu dici sarebbe registrata sulle carte con un doppio cerchio e il nome in tutto stampatello. Invece non trovo alcun riferimento a una città di nome Anagoor, la quale evidentemente non esiste. Alle tre sarò pronto, Magalon.»
Coi fari accesi alle tre del mattino si partì in direzione pressappoco sud sulle piste del deserto e mentre fumavo una sigaretta dopo l’altra con la speranza di scaldarmi vidi alla mia sinistra illuminarsi l’orizzonte e subito venne fuori il sole che si mise a battere il deserto finché fu tutto caldo e tremolante, tanto che si vedevano laghi e paludi intorno, in cui si riflettevano le rocce con precisione di contorni, ma di acqua non c’era in verità neanche un secchiello, soltanto sabbia e sassi incandescenti.
Ma la macchina con estrema buona volontà correva e alle 11,37 in punto Magalon che mi sedeva al fianco disse:
«Ecco, signore.»
E infatti vidi le mura della città che si estendevano per chilometri e chilometri, alte dai venti ai trenta metri, di colore giallastro, ininterrotte, qua e là sovrastate da torrette.
Avvicinandomi, notai che in vari punti, proprio a ridosso delle mura, c’erano degli accampamenti: tende miserabili, tende medie, tende da ricchi signori a forma di padiglione, sormontate da bandiere.
«Chi sono?» io chiesi.
E Magalon spiegò: «Sono coloro che sperano di entrare e bivaccano dinanzi alle porte».
«Ah, ci sono delle porte?»
«Ce ne sono moltissime, di grandi e di piccole, forse più di cento, ma è tanto vasto il perimetro della città che tra l’una e l’altra corre una notevole distanza.»
«E queste porte, quando le aprono?»
«Le porte non vengono aperte quasi mai. Però si dice che alcune si apriranno. Stasera, o domani, o fra tre mesi, o fra cinquant’anni, non si sa, è appunto qui il grande segreto della città di Anagoor.»
Eravamo arrivati. 
Ci fermammo dinanzi a una porta che sembrava di ferro massiccio. Molta gente era là in attesa. Beduini sparuti, mendicanti, donne velate, monaci, guerrieri armati fino ai denti, perfino un principe con la sua piccola corte personale. Ogni tanto qualcuno con una mazza batteva sulla porta, che rintronava.
«Battono» disse la guida «affinché quelli di Anagoor, udendo i colpi, vengano ad aprire. è infatti generale persuasione che se non si bussa nessuno mai aprirà.»
Mi venne un dubbio: «Ma è poi sicuro che di là dalle mura ci sia qualcuno? La città non potrebbe essere ormai estinta?»
Magalon sorrise: «Tutti, la prima volta che vengono qui hanno il medesimo pensiero. Io stesso sospettavo, un tempo, che dentro le mura non vivesse più nessuno. Ma c’è la prova del contrario. Certe sere, in condizioni favorevoli di luce, si possono scorgere i fumi della città che salgono diritti al cielo, come tanti incensieri. Segno che uomini vivono là dentro, e accendono fuochi, e fanno da mangiare. E poi c’è un fatto anche più dimostrativo: tempo fa una delle porte è stata aperta.»
«Quando?»
«La data, per essere sinceri, è incerta. Alcuni dicono un mese, un mese e mezzo fa, altri però ritengono il fatto molto più lontano, vecchio di due, tre, perfino quattro anni, qualcuno addirittura lo attribuisce al tempo che regnava il sultano AhmerEhrgun.»
«E quando regnò AhmerEhrgun?»
«Circa tre secoli fa… Ma tu sei molto fortunato, mio signore… Guarda. Benché sia mezzodì e l’aria bruci, ecco là dei fumi.»
Una improvvisa eccitazione, nonostante il caldo, si era propagata nell’eterogeneo accampamento. Tutti erano usciti dalle tende ed additavano due tremule spire di grigio fumo elevantisi nell’aria immota di là dal ciglio delle mura. 
Non capivo una parola delle concitate voci che si accavallavano. Però era evidente l’entusiasmo. Come se quei due poveri fumi fossero la cosa più meravigliosa del creato e promettessero ai riguardanti una prossima felicità. Il che mi sembrava esagerato per le seguenti ragioni:
Prima di tutto l’apparizione dei fumi non significava affatto una maggiore probabilità che quella porta si dovesse aprire e perciò non vi era motivo sensato di tripudio.
Secondo: tanto schiamazzo, se udito dall’interno delle mura, come era probabile, avrebbe, se mai, dissuaso quelli dall’aprire, anziché incoraggiarli.
Terzo: quei fumi, di per sé, non dimostravano neppure che Anagoor fosse abitata. 
Infatti non poteva trattarsi di un casuale incendio dovuto al sole torrido? Oppure, ipotesi assai più probabile, erano i fuochi accesi da predoni entrati per qualche pertugio segreto delle mura a saccheggiare la città morta e disabitata. 
«Era molto strano» io pensavo «che oltre ai fumi, nessun altro sintomo di vita fosse stato notato in Anagoor: né voci, né musiche, né ululati di cani, né sentinelle o curiosi sul ciglio delle mura, mai. Stranissimo.» Allora io dissi: «Dimmi, Magalon: quando è stata aperta la porta che tu dici, quanta gente è riuscita a entrare?». 
«Un uomo solo» disse Magalon.
«E gli altri? Cacciati indietro?»
«Altri non c’erano. Si trattava di una delle porte più piccole e trascurate dai pellegrini. Quel giorno non c’era nessuno ad aspettare. Verso sera giunse un viandante che bussò. Egli non sapeva che fosse la città di Anagoor, non si aspettava, entrando, niente di speciale, chiedeva solo un rifugio per la notte. Non sapeva niente di niente, era là per puro caso. Forse solo per questo gli hanno aperto.» 
In quanto a me, io ho aspettato quasi ventiquattro anni, accampato fuori delle mura. Ma la porta non si è aperta. E adesso me ne torno al mio paese.
I pellegrini dell’attendamento, vedendo i miei preparativi, scuotono il capo: «Eh, amico, quanta furia!» dicono. «Un minimo di pazienza, diamine! Tu pretendi troppo dalla vita.» 

- Dino Buzzati - 


Buona giornata a tutti. :-)




giovedì 27 dicembre 2018

I sette messaggeri - Dino Buzzati

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. 
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino.
Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. 
Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. 
Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. 
Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione.
Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. 
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del mio secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe.
La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. 
Il primo non era ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non di più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale, I’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. 
Dopo cinquanta giorni di cammino, I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.
Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, I’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. 
Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. 
La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. 
Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire.
Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino il messo ripartiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.

Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera. il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.
Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. 
Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. 
Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.   

- Dino Buzzati -
da: "La boutique del mistero", prima edizione Oscar Mondadori, Milano, 1968

illustrazione di Samuele Gaudio ispirata 
a I sette messaggeri di Dino Buzzati




Buona giornata a tutti. :-)







mercoledì 14 novembre 2018

Il tiranno malato - Dino Buzzati



All’ora solita cioè alle 19 meno un quarto nell’area cosidetta fabbricabile fra via Marocco e via Casserdoni, il volpino Leo vide avanzare il mastino Tronk tenuto per la catena dal professore suo padrone.

Il bestione aveva le orecchie dritte come sempre e scrutava il ristrettissimo orizzonte di quel sudicio prato fra le case. 
Egli era l’imperatore del luogo, il tiranno. 
Eppure il vecchio volpino pieno di risentimenti subito notò che non era il Tronk di un tempo, neppure quello di un mese prima, neppure il formidabile cagnaccio che aveva visto tre o quattro giorni fa.

Era un niente, il modo forse di appoggiare le zampe, o una specie di appannamento dello sguardo, o una incurvatura della schiena, o l’opacità del pelo o più probabilmente un’ombra – l’ombra grigia che è il segno terribile! – la quale gli colava già dagli occhi fino al bordo cadente delle labbra.

Nessuno certo, neppure il professore, si era accorto di questi segni piccolissimi. Piccolissimi? Il vecchio volpino che oramai ne aveva viste a questo mondo, capì, e ne ebbe un palpito di perfida gioia. “Ah ci sei finalmente” pensò. “Ci sei?” 
Il mastino non gli faceva più paura.
Si trovavano in uno di quegli spazi vuoti aperti dai bombardamenti aerei della guerra decorsa, verso la periferia, fra stabilimenti, depositi, baracche, magazzini. (Ma a breve distanza si ergevano i superbi palazzi delle grandi società immobiliari, a settanta-ottanta metri sopra il livello dell’operaio del gas intento a sistemare la tubazione in avaria e del violinista stanco in azione fra i tavolini del Caffè Birreria Esperia là sotto i portici, all’angolo.) 
Demoliti i moncherini superstiti dei muri, a ricordare le case già esistite non restavano qua e là che dei tratti di terreno coperti di piastrelle, il segno della portineria forse, o cucina a pianterreno o forse anche camera da letto di casa popolare (dove un tempo di notte palpitarono speranze e sogni e forse un bambino nacque e nelle mattine d’aprile, nonostante l’ombra tetra del cortile, di là usciva un canto ingenuo e appassionato di giovanetta; e alla sera, sotto una lampadina rossastra, gente si odiò o si volle bene). 

Per il resto, lo spazio era rimasto sgombro e sùbito, per la commovente bontà della natura così pronta a sorridere se appena le lasciamo un po’ di spazio, si era andato ricoprendo di verde, erba, piantine selvatiche, cespugli, a similitudine delle beate valli lontane di cui si favoleggia. 
Tratti di prato vero, coi loro fiorellini, avevano perfino tentato di formarsi, dove stanchi noi distenderci, le braccia incrociate dietro il capo, a guardare le nuvole che passano, così libere e bianche, sopra le soperchierie degli uomini.

Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue e la vittoria? Perché si ritiravano? Il mastino tornava a far loro paura?

Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone infetto.

I tre avevano intuito che a Tronk doveva essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. E invece l’odore insolito del pelo, forse, o del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. 
Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono al più lieve segno l’avvicinarsi della presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. 
E il lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.
I nemici si sono dileguati. è solo, adesso. 
Limpidi e puri nella maestà del vespero si sollevano intanto dalla terra, paragonabili a fanfare, i muraglioni vitrei dei nuovi palazzi e il sole che tramonta li fa risplendere e vibrare come sfida, sullo sfondo violetto della notte che dalla opposta parte irrompe. 
Essi proclamano le caparbie speranze di coloro che, pur distrutti dalla fatica e dalla polvere, dicono “Sì, domani, domani”, di coloro che sono il galoppo di questo mondo contristato, le bandiere! 
Ma per il satrapo, il sire, il titano, il corazziere, il re, il mastodonte, il ciclope, il Sansone non esistono più le torri di alluminio e malachite, né il quadrimotore in partenza per Aiderabad che sorvola rombando il centro urbano, né esiste la musica trionfale del crepuscolo che si espande pur nei tetri cortili, nelle fosse ignominiose delle carceri, nei soffocanti cessi incrostati d’ammoniaca.
Egli è intensamente fisso a quell’oasi stenta e con gli sguardi la divora. 
Il sangue che aveva cominciato a gocciolare da una lacerazione al collo si è fermato coagulandosi. Però fa freddo, un freddo atroce. 
Per di più è venuta la nebbia, lui non riesce più a vedere bene. 
Strano, la nebbia in piena estate. 
Vedere. 
Vedere almeno un pezzo della cosa che gli uomini usano chiamare verde: il verde del suo regno, le erbe, le canne, i miseri cespugli (i boschi, le selve immense, le foreste di querce e antichi abeti).
Il professore è di ritorno e si consola vedendo il lupo e gli altri due barabba che si allontanano spauriti. “Eh il mio Tronk” pensa orgoglioso. “Eh, ci vuol altro!” Poi lo vede laggiù seduto, apparentemente quieto e buono.
Un cuccioletto era, quattro anni fa soltanto, che si guardava gentilmente intorno, tutto doveva ancora cominciare, certo avrebbe conquistato il mondo.
L’ha conquistato. 
Guardatelo ora, grande e grosso, il cagnazzo, petto da toro, bocca da barbaro dio azteco, guardatelo l’ispettore generale, il colonnello dei corazzieri, sua maestà! 
Ha freddo e trema.
” Tronk! Tronk! ” lo chiama il professore. 
Per la prima volta il cane non risponde. Nei sussulti del cuore che rimbomba, pallido del terribile pallore che prende i cani i quali erroneamente si pensa che pallidi non possano diventare mai, egli guarda laggiù, in direzione della foresta vergine, donde avanzano contro di lui, funerei, i rinoceronti della notte.

- Dino Buzzati -
da; "Sessanta racconti" di Dino Buzzati, prima uscita 1958, edito da Mondadori, 1994




Buona giornata a tutti. :-)







mercoledì 10 ottobre 2018

Il mantello - Dino Buzzati

Dopo un’interminabile attesa, quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: “Oh benedetto! ” correndo ad abbracciarlo.
Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell’alba, che doveva riportare la felicità.
Egli non disse quasi parola, gli costava troppa fatica trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo.
“Lasciati vedere” diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro, “Lasciati vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei. “.
Era alquanto pallido, infatti, e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza e si sedette. Che stanco, che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica.
“Ma togliti il mantello, creatura” disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto di esserne intimidita; com’era diventato alto, bello fiero (anche se un po’ troppo pallido).
“Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo? “. Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
“No, no, lasciami” rispose evasivo, “preferisco di no, tanto tra poco devo uscire… “.
“Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire? ” fece lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia, l’eterna pena delle madri; “Devi uscire subito? E non mangi qualcosa? “.
“Ho già mangiato, mamma. ” rispose il figlio con un sorriso buono, e si guardava attorno assaporando le amate penombre. “Ci siamo fermati ad un’osteria, qualche chilometro da qui… “.
“Ah, non sei venuto solo? E chi c’è con te? Un compagno di reggimento? Il figlio della Mena, forse? “.
“No, no, era uno che ho incontrato per via. È fuori che aspetta adesso. “.
“È lì che aspetta? E non l’hai fatto entrare? L’hai lasciato in mezzo alla strada? “.
Andò alla finestra e attraverso l’orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava la sensazione di nero. Allora nell’animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta.
“È meglio di no. ” rispose lui, deciso. “Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.”
“Ma un bicchiere di vino? Glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?”
“Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, capace di andar su tutte le furie.”
“Ma chi è, allora? Perché ti ci sei messo assieme? Che cosa vuole da te?”
“Bene non lo conosco” disse lui lentamente e assai grave, “L’ho incontrato durante il viaggio. È venuto con me, ecco.
Sembrava preferisse parlar d’altro, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima.
“Senti” disse, “ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l’immagini che salti di gioia? È per lei che volevi uscire? “.
Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe esser lieto eppure non può, per qualche segreto peso. La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un’infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. 
Non più le notti d’angoscia quando all’orizzonte spuntavano i bagliori del fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine.
Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra il suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? Perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto, l’uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Con il dolce viso piegato un po’ da una parte, lo fissavacon ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno?
In realtà suo figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se temesse qualcosa.
E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.
“Giovanni” mormorò lei non trattenendosi più, “sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta adesso che ti faccio il caffé. “.
Si affrettò in cucina. E Giovanni rimase coi due fratellini tanto più giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello spazio di due anni!
Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano assieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d’un fiato la tazza, masticò a torta con fatica. “Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua passione! ” avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo.
“Giovanni” gli propose invece, “e non vuoi rivedere la tua camera? C’è un letto nuovo, sai? Ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere… ma il mantello, non te lo levi dunque?… Non senti che caldo? “.
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia dirigendosi verso la stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s’egli non avesse vent’anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
“Che bello! ” fece lui con fiacco entusiasmo, come fu sulla soglia, alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch’essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e sorpresa.
Invece niente. “Com’è bello! Grazie, sai? Mamma. ” ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di concludere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giù lentamente.
“Sei contento, Giovanni? Sei contento? ” chiese lei impaziente di vederlo felice. “Oh, sì, è proprio bello. ” rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello? ) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo.
“Giovanni” supplicò lei “che cos’hai? Che cos’hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa perché non vuoi dire? “.
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. “Mamma” rispose dopo un po’ con voce opaca “mamma, adesso devo andare. “.
“Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? Dimmi la verità, vai dalla Marietta? ” e cercava di scherzare, pur sentendo la pena.
“Non so, mamma” rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo, “non so, ma adesso devo andare, c’è quello là che mi aspetta. “.
“Ma torni più tardi? Torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po’ prima di pranzo… “.
“Mamma” ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire più, di tacere, per carità, di non aumentare la pena, “devo andare, adesso, c’è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo paziente. “. 

Poi la fissò con uno sguardo da cavare l’anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero addosso e Pietro sollevò il lembo del mantello per saper come il fratello fosse vestito sotto.
“Pietro, Pietro! ……Su, che cosa fai? Lascia stare, Pietro! ” gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
“No, no! ” esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo.
Ma era troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.
“Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto? ” balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. “Giovanni, ma questo è sangue! “.
“Devo andare, mamma” ripeté lui ancora una volta, con disperata fermezza. “L’ho già fatto aspettare abbastanza. 
Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma. “.
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. 
Attraversò l’orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio, fin troppo paziente. 

Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare diversi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come un pezzente affamato.

- Dino Buzzati -



Signore, a volte la nostra preghiera
non è altro che la necessità della tua mano,
l’assoluta necessità di sentire la tua mano profonda,
capace di accoglierci così come siamo, dentro il silenzio;
è solo il desiderio di scoprire
che la tua immensità sfiora, anche se lievemente,
ciò che è precipitoso, precario, incerto;
sfiora le nostre rotte quotidiane;
non è altro che la necessità di riconoscere
che tu, essendoci, ricevi questa specie di fame
e di desiderio che noi siamo.

- José Tolentino Mendonça -


Buona giornata a tutti. :)







lunedì 17 settembre 2018

Il disco si posò - Dino Buzzati


Il disco si posò.
Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l'ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l'inspiegabile serenità del mondo, l'odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand'ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese. 
All'insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l'ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. 

Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto. 
Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All'udire l'insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri. Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. 
Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c'era appesa la doppietta. 
Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch'erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più... Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!»
Zitto, il prete li lasciò armeggiare col disco. Parlottavano tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. 
Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una moderatissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che è in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lasciò fare, sempre imbracciando la doppietta. 
Ma all'improvviso cambiò idea. «Ehi!» gridò con la sua voce rimbombante. «Giù di là, giovanotti. Chi siete?» I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emozionati. Però scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il più alto cominciò a parlare. Don Pietro - ce lo ha lui stesso confessato - rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? 
Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile? 
«Calmo, calmo» lo straniero disse «tra poco ce n'andiamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne? (e faceva segno alla croce). Ne avete dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?» «Ma sono croci!» fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttosto assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli , estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche? 
«Croci» ripeté, compitando il forestiero. «E a che cosa servono?» 
Don Pietro posò il calcio della doppietta a terra, che gli restasse però sempre a portata di mano. Si drizzò quindi in tutta la statura, cercò di essere solenne: «Servono alle nostre anime» rispose. «Sono il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, che per noi è morto in croce.» 
Sul capo dei marziani all'improvviso gli evanescenti ciuffi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione? O era quello il loro modo di ridere? «E dove, dove questo sarebbe successo?» chiese sempre il più grandetto, con quel suo squittio che ricordava le trasmissioni Morse; e c'era dentro un vago accento di ironia. «Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi?» «Qui, sulla Terra, in Palestina.» 
Il tono incredulo irritò don Pietro. «Sarebbe una storia lunga» disse «una storia forse troppo lunga per dei sapienti come voi.» In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillò due tre volte. Pareva che la muovesse il vento. «Oh, dev'essere una storia magnifica» fece con condiscendenza. «Uomo, vorrei proprio sentirla.» Balenò nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l'abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto storico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna. 
«Se non vuol altro» disse, rude. «Ma fatevi vicini, venite pure qui nella mia stanza.» Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parroco, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampada, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati a accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir di no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo più che mai irto e ondeggiante. «Ascoltate, spazzolini!» disse il prete, brusco, aprendo il libro, e lesse: "... l'Eterno Iddio prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino d'Eden... e diede questo comandamento: Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino, ma del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo sarà la tua morte. Poi l'Eterno Iddio... "» 
Levò gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. «C'è qualcosa che non va?» Chiese il marziano: «E, dimmi, l'avete mangiato, invece? Non avete saputo resistere? E andata così, vero?» «Già. Ne mangiarono» ammise il pretese la voce gli si riempì di collera. «Avrei voluto veder voi! È forse cresciuto in casa vostra l'albero del bene e del male?» «Certo. È cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso è ancora verde...» «E voi?... I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?» 
«Mai» disse lo straniero. «La legge lo proibisce.» Don Pietro ansimò, umiliato. Allora quei due erano puri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guardò intorno come cercando aiuto, finché scorse nella penombra, sopra il letto, il crocefisso nero. 
Si rianimò: «Sì, per quel frutto ci siamo rovinati... Ma il figlio di Dio» tuonò, e sentiva un groppo in gola «il figlio di Dio si è fatto uomo. Ed è sceso qui tra noi!» 
L'altro stava impassibile. Solo il suo ciuffo dondolava da una parte e dall'altra, simile a una beffarda fiamma. «E' venuto qui in Terra, dici? E voi, che ne avete fatto? Lo avete proclamato vostro re?... Se non sbaglio, tu dicevi ch'era morto in croce... Lo avete ucciso, dunque?» 
Don Pietro lottava fieramente: «Da allora sono passati quasi duemila anni! Proprio per noi è morto, per la nostra vita eterna!» Tacque, non sapeva più che dire. E nell'angolo scuro le misteriose capigliature dei due ardevano, veramente ardevano di una straordinaria luce. Ci fu silenzio e allora di fuori si udì il canto dei grilli. 
«E tutto questo» domandò ancora il marziano con la pazienza di un maestro «tutto questo è poi servito?» Don Pietro non parlò. Si limitò a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? Siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. 
E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani. Quanto tempo passò? Ore, minuti? Don Pietro fu riscosso dalla voce degli ospiti. Alzò gli occhi e li scorse già sul davanzale, in procinto, si sarebbe detto, di partire. Contro il cielo della notte i due ciuffi tremolavano con affascinante grazia. «Uomo» domandò il solito dei due. «Che stai facendo?» «Che sto facendo? Prego!... Voi no? Voi non pregate?» «Pregare, noi? E perché pregare?» «Neanche Dio non lo pregate mai?» «Ma no!» disse la strana creatura e, chissà come, la sua corona vivida cessò all'improvviso di tremare, facendosi floscia e scolorita. «Oh, poveretti» mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero, come si fa con i malati gravi. 
Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. E adesso era felice. "Eh, eh" ridacchiava dentro di sé "voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio." 
(I due intanto si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio. Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) 
«Oh» continuava a brontolare il prete «Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgono la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c'è il male, e il rimorso, e il pianto?» 
Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. 
E dai remoti colli rispose l'ululio dei cani. 

- Dino Buzzati -
da: "La boutique del mistero",Ed. Oscar Mondadori,  pagg. 107-111

Dino Buzzati
16 ottobre 1906 - 28 gennaio 1972