Introduzione
Molte persone si ammalano perché hanno
dentro di sé qualcosa che si è spaccato. La spaccatura si ripercuote spesso sul
corpo.
Essere sano significa essere intatto, integro, essere pacificato con
tutto quello che c’è in me. Ci sono forme di spiritualità, nel passato come
pure nel presente, che ci fanno ammalare.
Chi si identifica con ideali elevati,
corre sempre il pericolo di lasciar da parte la propria realtà.
Ciò che non si
vuole ammettere in se stessi viene rimosso o represso.
Ma non possiamo
rimuovere la nostra realtà impunemente: essa si ripercuoterà negativamente
sull’anima, oppure si riverserà sul corpo come malattia.
Nella Bibbia la guarigione avviene
allorquando Gesù tocca i malati. Questi devono mettere davanti a Cristo la loro
vera situazione, affinché la sua forza sanante possa scorrere sulle loro ferite
e le possa trasformare. Gesù non è un mago divino che fa sparire d’incanto le
nostre malattie. Solo quando ci mettiamo di fronte alla nostra realtà, ci
rendiamo conto delle ferite che sono in noi e le presentiamo coscientemente a
Cristo, solo allora la guarigione è possibile. Una via di guarigione è mettersi
di fronte alle nostre ferite; l’altra via consiste nel fare pace con noi
stessi. Questa pacificazione non è un’autoguarigione, ma è piuttosto una
risposta alla fiducia di essere accolti da Dio incondizionatamente.
In questo
articolo vorrei prendere in considerazione la seconda via di guarigione: la
riconciliazione con me stesso, con Dio e con gli altri.
1. Il concetto di riconciliazione
Riconciliazione è un concetto centrale
nella teologia di san Paolo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, Paolo afferma
che Dio «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il
ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Paolo parte dalla premessa che
gli uomini si sono alienati da se stessi e in tal modo hanno perduto anche il
contatto con Dio. In Gesù Cristo, Dio ha preso l’iniziativa e nella sua morte
in croce ha colmato l’abisso che separava gli uomini da Dio e da se stessi. In
Gesù, Dio si è avvicinato agli uomini ed è giunto fino all’ultima solitudine e
abbandono. Là, sulla croce, ha tolto via la più profonda alienazione dell’uomo
con se stesso e con Dio. La riconciliazione è dunque un agire di Dio su di noi.
Ma tocca a noi rispondere a questa azione di Dio, dicendo: «Vi supplichiamo in
nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). È necessario che
noi stessi collaboriamo, affinché in noi possa compiersi la riconciliazione.
La parola latina reconciliatio
significa originariamente il ristabilimento di amicizia, una rappacificazione.
Il verbo corrispondente reconciliare significa: rimettere in ordine,
ristabilire, unire nuovamente, rendere di nuovo sano, rappacificare. Il
significato originario intende dunque far capire che Cristo, mediante la sua
morte in croce ha ricondotto gli uomini all’amicizia con Dio, dal quale si
erano allontanati.
Riconciliazione significa quindi anche che sappiamo trattare
noi stessi in modo amichevole, che consideriamo nostro amico tutto ciò che è in
noi. Molti esseri umani non hanno una relazione né con Dio, né con se stessi.
La riconciliazione significa che finalmente riescono a prendere contatto con se
stessi e solo allora diventano capaci anche di entrare in relazione con gli
altri e con Dio.
2. Riconciliazione con se stessi
Il primo e nello stesso tempo il più
difficile compito della nostra «umanizzazione» consiste nel riconciliarci con
noi stessi.
La condizione per realizzare questo compito è la fiducia di essere
accolti da Dio incondizionatamente.
La pacificazione con me stesso ha diversi
aspetti. Anzitutto mi devo rappacificare con la storia della mia vita.
Sono
diventato così come sono.
Non posso far sì che la mia nascita ritorni
nuovamente al punto di partenza. Non posso far finta che le mie ferite non
siano avvenute.
Far la pace con se stessi significa dire di sì alle ferite e
alle offese che abbiamo ricevuto nel corso della vita.
Molte persone rimangono
per tutta la vita dei querelanti. Accusano i genitori di averli feriti.
Rifiutano di prendersi la responsabilità della propria vita. Ma in questo modo
non riescono mai a trovare la pace con se stessi. Preferiscono soffrire invece
di rappacificarsi con se stessi e con la storia della propria vita.
Fa parte della riconciliazione con la
propria storia di vita anche la riconciliazione con il proprio corpo, così come
esso è diventato.
Incontro molti cristiani che mi assicurano di sentirsi bene
accolti da Dio, ma questa fede nell’accettazione da parte di Dio non va tanto
in profondità nel loro cuore, così che possano accogliere se stessi anche nel
proprio corpo.
Sono così fortemente condizionati dalle immagini esterne di come
dovrebbe essere il loro corpo, che respingono se stessi come sono realmente
cresciuti. Non riescono ad accettare il proprio volto, perché sarebbe troppo banale,
non abbastanza bello, non corrisponde ai canoni attuali della bellezza.
Si
arrabbiano perché sono troppo grassi, tentano di nascondere le gambe e
preferirebbero non mostrarsi mai così come sono.
Talvolta questo odio verso il
proprio corpo si manifesta nell’anoressia o nella bulimia.
Ildegarda di Bingen
sostiene che l’anima dovrebbe rallegrarsi di abitare nel nostro corpo. Ma molti
cristiani non hanno interiorizzato questo atteggiamento di santa Ildegarda. Si
vergognano – come si racconta del filosofo greco Plotino – di essere nel loro
corpo. Ci vuole un amore umile per il proprio corpo. Devo coscientemente
accettarlo volentieri, affinché la mia anima vi si senta a suo agio.
Un altro aspetto della riconciliazione
con se stessi esige la pacificazione con i propri lati oscuri. Lo
psicoterapeuta svizzero Karl Gustav Jung ha coniato il concetto di «ombra».
Intende con ciò tutto quello che abbiamo escluso dalla nostra sfera cosciente.
Jung concepisce la persona umana come un essere «polarizzato».
Abbiamo sempre
due poli: amore e aggressività, ragione e sentimento, disciplina e
indisciplina, virilità e femminilità. Ogni volta che accentuiamo troppo uno dei
poli, l’altro cade nell’ombra e di là agisce distruttivamente sulla nostra
vita. Quando reprimiamo i nostri sentimenti, spesso finiscono per esternarsi in
un sentimentalismo, in cui siamo sopraffatti dalle emozioni e non sappiamo più
come trattare con esse.
San Benedetto esige dal monaco l’umiltà, humilitas.
Questa virtù consiste nel discendere nel regno delle nostre ombre,
nell’accettare la condizione terrena e nel pacificarsi con i nostri lati
oscuri. Tale pacificazione non significa semplicemente lasciarli sfogare.
Devo
soltanto prenderli sul serio: vogliono che si presti loro attenzione e allora
sono soddisfatti. Invece quanto più li si combatte, tanto più intervengono in
modo sgradevole, spesso in reazioni spropositate oppure in sogni che procurano
ansia.
Ancora più difficile è riconciliarsi
con le nostre colpe. Possiamo perdonarci solo perché Dio ci ha perdonato. Ma è
necessario far scorrere la fede nel perdono divino anche in tutti i sensi di
colpa e i rimproveri che ci facciamo per i nostri sbagli. Molti affermano di
credere nel perdono da parte di Dio, ma continuano a rinfacciarsi di aver fatto
questo o quell’errore. Non riescono a perdonare se stessi per il fatto di aver
commesso certe colpe. Spesso i sensi di colpa li dilaniano anche su cose di cui
non hanno colpa alcuna. Una donna continuava a rimuginare sensi di colpa per il
fatto di non essere stata presente nell’istante in cui la madre era morta,
benché per molti anni si fosse presa cura di lei. Far pace con le proprie colpe
e con i sensi di colpa richiede che mi distacchi dall’illusione di poter andare
in giro per tutta la vita con una veste candida. Che lo voglia o no, mi macchio
di qualche colpa. Dobbiamo per forza ricorrere al perdono di Dio, per poter
perdonare a noi stessi. Ma spesso in noi c’è un giudice spietato, il nostro
Super-io, che continuamente ci giudica quando non obbediamo alle norme che
abbiamo appreso dai nostri genitori. Riconciliazione significa gettare giù dal
trono questo giudice spietato e credere alla misericordia di Dio. Su questo
punto ci può aiutare la meditazione sulle parole della Prima Lettera di
Giovanni: «Se anche il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro
cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,20).
La riconciliazione con me stesso non
avviene mai una volta per sempre. È un processo che dura per tutta la vita: in
me scopro continuamente aspetti che non posso accettare bene. Quindi sono di
nuovo sfidato a dire di sì a quello che vorrei ben volentieri far finta di non
vedere. Si richiede una grande umiltà per guardare i propri lati oscuri e
metterli davanti a Dio, perché disturbano l’immagine di noi stessi che ci siamo
costruiti e perché ci mettono a confronto con la nostra vera realtà. Ma è la
verità che ci farà liberi, come Gesù ci ha già promesso (Gv 8,32).
3. Riconciliazione con gli altri
Solo chi è riconciliato con se stesso
è capace di riconciliarsi anche con gli altri. Molti incontrano grosse
difficoltà nel perdonare gli altri. Esigono troppo da se stessi, perché pensano
di dover perdonare immediatamente. Il perdono è sempre un processo che richiede
tempo. Alcune persone non guariscono perché non sanno perdonare. Finché non
riescono a perdonare, rimangono legate a colui che le ha ferite, si lasciano
condizionare da lui. Nella mia esperienza di accompagnamento, incontro
continuamente persone che per lunghi anni portano dentro di sé il rancore verso
qualcuno. L’astio divora la loro anima e ruba le loro energie: e abbastanza
spesso finiscono anche per ammalarsi. La riconciliazione con quelli che mi
hanno ferito nel corso della mia vita, non è semplicemente una decisione della
volontà. È piuttosto un processo che secondo me avviene in cinque fasi.
Il primo passo richiede che io lasci
spazio al dolore. Non debbo scusare troppo presto colui che mi ha ferito. È del
tutto indifferente se l’altro mi ha ferito apposta oppure non poteva fare
altrimenti: il fatto è che mi ha fatto soffrire. E questo dolore devo
nuovamente percepirlo nella sua realtà. Mi sono sentito abbandonato, sminuito,
preso non seriamente in considerazione.
Il secondo passo consiste nel lasciar
spazio alla collera (rabbia). La collera è la forza di buttare fuori da me
colui che mi ha ferito. Collera non vuol dire mettermi a gridare contro l’altro
oppure ferirlo a mia volta. Essa consiste invece nel prendere una sana distanza
dall’altro. Posso dirmi per esempio: non penso più continuamente a lui; gli
impedisco di entrare in casa mia, cioè gli proibisco di abitare nel mio intimo,
di occuparmi continuamente di lui nei miei pensieri. Nello stesso tempo devo
trasformare in energia questa collera: posso vivere da me stesso; non ho
bisogno dell’altro perché la mia vita abbia un esito positivo.
Il terzo passo si riferisce al
guardare oggettivamente ciò che è accaduto. Cerco ora di comprendere perché
l’altro mi ha ferito. Forse non ha fatto altro che trasmettere le ferite che a
sua volta aveva ricevuto. Mi sforzo quindi di capire me stesso: per quale
motivo il comportamento dell’altro mi ha fatto soffrire così tanto. Forse
l’altro ha toccato in me un’antica piaga, un posto dove non mi sono ancora
riconciliato con me stesso. Questa riflessione diventa un invito a occuparmi di
questa zona così vulnerabile e ad accettare me stesso con questa mia
vulnerabilità.
Il quarto passo della riconciliazione
con l’altro consiste propriamente nell’atto del perdono. Perdonare significa
che mi libero dal legame con l’altro. Lascio che il suo comportamento rimanga
in lui e così mi distacco dall’altro. Il perdono è sempre un segno di forza e
non di debolezza. Rinuncio a girare continuamente attorno alle mie ferite. Se
queste sono però troppo profonde, non riesco ancora a incontrarmi con l’altro,
nonostante il mio perdono. Devo allora accettare i miei limiti. Ho perdonato
all’altro, ma non sono ancora capace di costruire con lui un rapporto normale.
Molti psicologi hanno sperimentato, tra le altre cose, che il perdono è un atto
terapeutico, che rende possibile la guarigione delle proprie piaghe e ci libera
dal rimuginare continuamente il nostro passato. Il perdono ci rende capaci di
impegnarci nel momento presente con tutto il nostro essere.
Il quinto passo della riconciliazione
trasforma le piaghe in perle.
Ildegarda di Bingen sostiene che la riuscita
della vita dipende dal fatto che le nostre piaghe vengano trasformate in perle.
Se compissi soltanto i primi quattro passi, avrei sempre la sensazione di
subire un danno, poiché ero stato ferito in modo veramente grave. Il quinto
passo mi mostra che nelle mie ferite si trova un tesoro prezioso. Là dove mi
hanno ferito sono crollate le mie maschere e ho potuto mettermi in contatto col
mio vero Sé. Le piaghe mi fanno sentire vivo, mantengono sveglia in me la
nostalgia di Dio e mi aprono verso le persone con le loro ferite. Dato che io
stesso sono stato ferito, posso meglio comprendere le altre persone con le loro
piaghe. Molti terapeuti e pastori d’anime hanno trasformato le loro piaghe in
perle. Gli antichi greci sapevano già che solo il medico ferito poteva
veramente guarire.
Se le mie piaghe vengono trasformate in perle, non porto
più rancore contro quelli che mi hanno ferito. Allora il perdono non è soltanto
qualcosa di passivo, ma rende possibile la scoperta delle mie energie e mi dà
fiducia di imprimere in questo mondo la traccia inconfondibile e del tutto
personale della mia vita.
Questi cinque passi della
riconciliazione con l’altro si possono percorrere senza parlare con l’altro.
Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro. È sempre
necessaria tuttavia la prudenza nel giudicare se il dialogo con l’altro sia
veramente opportuno. Se dico a dei genitori anziani che mi hanno ferito, li
metterò in confusione e pretenderei troppo da loro. Il processo della
riconciliazione avviene dentro di me. Spesso è bene parlarne con una terza
persona, ad esempio nell’accompagnamento pastorale o in una analisi
terapeutica. Se si tratta di ferite attuali, devo decidere se per me è meglio
segnalare all’altro che mi ha ferito, oppure se posso perdonargli
interiormente. Se dico all’altro che mi ha ferito, ciò non deve essere in alcun
modo una rimostranza, bensì un’informazione, affinché sappia come il suo
comportamento si riflette su di me.
Un’altra questione è se devo dire
all’altro che lo si perdona. Il direttore di una fabbrica mi raccontava di
avere un conflitto con la sua segretaria. Durante la discussione, la donna
disse: «Le perdono in nome di Gesù».
Per il direttore fu come uno schiaffo in faccia.
Infatti in questa frase risuonava implicitamente: «Tu sei colpevole. Sei un
tipo cattivo, ma io sono una persona spirituale e di animo generoso e ti
perdono».
Per l’altro, simili dichiarazioni di perdono sono un’accusa. Non
producono alcuna riconciliazione, bensì rendono il disaccordo più profondo.
Quando l’altro non accoglie il nostro perdono, abbiamo sempre la sensazione di
essere persone migliori di lui.
Nel monachesimo dei primi secoli cristiani, si
racconta la storia di un monaco che andò dal suo vecchio padre spirituale
lagnandosi che suo fratello non aveva accettato il suo perdono.
Allora il
vecchio abate gli rispose: «Guarda bene dal non metterti al di sopra di tuo
fratello. Immagina di aver peccato contro di lui e va così da tuo fratello». Quando
il monaco andò dal fratello con questo atteggiamento, fu il fratello che gli
andò incontro e i due si abbracciarono. Certamente il fratello si era accorto
del cambiamento avvenuto nel monaco. Il nostro perdono potrà giungere fino
all’altro solo quando è inteso sinceramente e riusciamo a scorgere anche la
nostra parte di colpa.
4. Riconciliazione con Dio
Il messaggio fondamentale della Bibbia
è che Dio ha riconciliato gli uomini con sé.
Dio non ha bisogno di essere
riconciliato, perché egli è per essenza amore e misericordia. È l’uomo invece,
diventato colpevole, che si è separato interiormente da Dio. La colpa significa
sempre una spaccatura. Se mi addosso una colpa, ho sempre l’impressione di non
poter più comparire innanzi agli occhi degli altri e di dovermi nascondere –
come Adamo ed Eva – davanti a Dio. Il messaggio dell’amore misericordioso di
Dio, che colma questa spaccatura interiore, mi permette di presentare a Dio
tutto quello che c’è dentro di me.
La croce di Gesù non produce il perdono. Dio
non perdona perché Gesù è morto in croce, ma perché egli è Dio. Tuttavia la
croce è per noi la più efficace comunicazione del perdono. Quando vedo che Gesù
in croce perdona ai suoi uccisori, posso confidare che in me non c’è nulla che
non possa essere perdonato. Così la croce rafforza la mia fiducia nell’amore
perdonante di Dio. Se medito la croce, so questo: sono accolto da Dio
incondizionatamente. Anche la mia colpa non mi separa da lui.
La riconciliazione parte da Dio. Ma
anch’io devo riconciliarmi con Dio. Spesso in me c’è una ribellione contro di
lui. Non gli posso perdonare di avermi creato così come sono. Non gli posso
perdonare che mi abbia destinato un genere di vita come quello che ho, di non
avermi preservato dai miei errori e colpe. E così anch’io devo perdonare Dio
che mi ha posto nella difficile situazione che mi tocca affrontare. In
definitiva, la riconciliazione con Dio richiede che mi liberi dalle false
immagini di Dio e di me stesso, per affidarmi al mistero inafferrabile di Dio.
Allora potrò sperimentare la vera pace e riconciliazione con lui.
Ma la riconciliazione con Dio implica
ancora un ulteriore aspetto. Quando faccio l’esperienza di Dio, sperimento
anche la riconciliazione non solo con lui, ma anche con tutto ciò che esiste.
Ho accompagnato per molti anni nella terapia una donna che cercava di superare
le ferite ricevute dalla madre. Tutto lo sforzo di analizzarle non le era
giovato a riconciliarsi veramente con la madre. Durante una celebrazione
liturgica aveva sperimentato la vicinanza guaritrice di Dio. E ad un tratto si
è sentita una sola cosa con se stessa e in accordo con tutta la sua vita. Non
c’era più alcun odio verso la madre, ma solo amore. La vera esperienza di Dio è
sempre anche esperienza di riconciliazione. Se sono una cosa sola con Dio, sono
una sola cosa anche con tutto quello che è dentro di me, con gli altri, con la
mia vita, con Dio. Sperimento una profonda pace interiore. Tuttavia non posso
fissare questa esperienza di essere riconciliato. È sempre solo un istante quello
in cui sono una sola cosa con Dio, ma è un istante che mi mostra che cos’è
veramente riconciliazione: essere una sola cosa con tutto ciò che esiste;
essere in accordo con il Dio inafferrabile e con quello che egli ha mi ha
riservato.
5. Riconciliazione e guarigione
La riconciliazione è un percorso
importante per giungere alla guarigione. Guarire non significa che Dio ci
toglie e fa sparire le nostre piaghe, bensì che noi apriamo le nostre piaghe
per Dio e in lui diventiamo sani e integri.
Le piaghe fanno parte della nostra
identità, non ci separano né da Dio né dal nostro vero Sé. Al contrario aprono
in noi una breccia che ci fa scoprire il nostro vero Sé, l’immagine originaria
e autentica di Dio in noi. Chi si riconcilia con se stesso, con gli uomini e con
Dio, sente di essere una persona nuova. Paolo lo ha formulato così: «Se uno è
in Cristo, è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono
nate di nuove» (2Cor 5,17).
La vera e propria malattia del nostro
tempo – ci dice la psicologia – è la mancanza di relazione (di riferimenti).
Gli uomini non sono capaci di mettersi in relazione con se stessi, e neppure
con le cose, con gli altri e con Dio. La riconciliazione è il mezzo per
mettersi in relazione con tutto quello che c’è in me, così da non escludere più
niente dal mio vero Sé. Colui che mette tutto in relazione con il Sé più
intimo, il Cristo in noi, è totalmente risanato e salvo, e sperimenta se stesso
come un uomo nuovo.
Per Paolo riconciliazione è un altro concetto (un sinonimo)
per esprimere la redenzione. Sulla croce Dio ha riconciliato a sé gli uomini
con tutte le loro contraddizioni. L’uomo lacerato diventa in tal modo risanato
e integro, si sente un essere nuovo. Le cose vecchie sono veramente passate. In
Cristo l’uomo ha trovato la sua nuova identità, un’identità in cui egli non ha
più bisogno di escludere niente, né da se stesso, né davanti a Dio.
Ha la
capacità di vedere con occhi nuovi se stesso e anche il mondo attorno a sé. Da
lui la riconciliazione si espande in tutto l’ambiente in cui vive. In tal modo,
per suo mezzo, anche il mondo che lo circonda viene ri-creato.
Nella
riconciliazione muore l’uomo vecchio che giudica se stesso. Siamo così liberi
di camminare nella novità della vita divina (cf. Rm 6,4). La «novità di vita» non
è un’affermazione puramente teologica, ma si riferisce alla nostra esperienza.
Chi si riconcilia con se stesso, vive se stesso in modo diverso da prima. Non
vive più sul piano del rifiuto o della estraniazione da sé, bensì come una
persona unificata nel proprio intimo, rinnovata, riconciliata e capace di
donare riconciliazione agli altri.
- Anselm Grün -
scrittore, monaco
dell’abbazia benedettina di Münsterschwarzach in Germania, traduzione di Luigi
Dal Lago, in Credere Oggi, 145/2005)
Lo so .. lo so .. quest'ultima citazione non vi piace....
Buona giornata a tutti. :-)