Introduzione:
La morte di una persona cara è un dramma che segna per sempre l’esistenza degli
individui, sia per quelli che pensano che la morte sia la fine di tutto, sia
per quanti credono nella risurrezione o in altre forme di sopravvivenza. Ma la
sofferenza per la perdita della persona amata è paradossalmente più dolorosa
proprio per i credenti, a causa delle confuse o errate idee religiose che
accompagnano la morte, e degli intenti consolatori di parenti, amici e
conoscenti, specialmente se questi sono persone religiose.
Nell’istante del lutto sono molti gli interrogativi riguardo a tutto quel che
circonda la morte (Perché proprio a lui o lei? Perché ora? Perché così giovane
e così buono?). Ma, soprattutto, è inquietante l’interrogativo: dove è ora il
defunto? Com’è? Che cos’è? Che cosa fa? È sufficiente la tradizionale risposta
che i nostri cari, nella migliore delle ipotesi, sono in Cielo e contemplano
beati il Signore per tutta l’eternità? Che godono della Requiem aeternam in una
sorta di Casa di Riposo celeste?
Il momento del lutto non è tempo di parole ma di silenzio, di presenza che
supplisca l’assenza, di forza che si faccia carico della debolezza.
Quale parola potrà infatti mai
confortare la persona afflitta dalla perdita di un proprio caro? Ogni parola e
ogni frase, anche se formulate con le migliori intenzioni, saranno inadeguate e
inopportune, come denuncia Giobbe agli amici venuti a consolarlo: «Ne ho udite
già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. Non avranno termine
le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? Anch’io sarei
capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza
parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi. Vi potrei incoraggiare
con la bocca e il movimento delle mie labbra potrebbe darvi sollievo» (Gb
16,2-5).
Nel tempo del lutto c’è solo da com-piangere, piangere con chi piange
(«Piangete con quelli che sono nel pianto», Rm 12,11), circondare le persone di
caldo affetto e tanto amore. A chi è affranto per la morte che l’ha colpito nei
suoi affetti più cari non servono parole, ma occorre fargli sperimentare la
forza della vita. Poi, dopo qualche tempo, può venire il momento del dialogo,
per cercare di dare un significato a quel che sembra insensato, come appunto è
la morte, per tentare di capire che quel che appare come un annichilimento in
realtà è un potenziamento della persona. Ma ci vuole tempo, pazienza,
discrezione e tanta delicatezza. Un approccio maldestro, seppure animato da
buoni propositi, può causare danni devastanti e spesso irreparabili.
Quel che occorre fare subito, al
momento del lutto, è evitare accuratamente le persone pie, devote, bigotte,
quelle che su tutto pontificano con frasi preconfezionate, sentenze, certezze
che non attingono dalla loro esperienza ma dalla dottrina.
Sono quelle che alla persona distrutta
dal dolore sentenziano: «Il Signore l’ha chiamato», «L’ha preso» e, se il morto
era conosciuto per la sua bontà, affermano sicure, accompagnando la frase con
un rassegnato sospiro: «Eh, sono sempre i migliori che se ne vanno!» oppure,
con aria quasi soddisfatta: «I più buoni il Signore li vuole con sé», o in
alternativa: «Era già maturo per il paradiso».
Nel caso il defunto sia molto giovane,
questi becchini del dolore affermano impudentemente che «I fiori più belli il
Signore li vuole con sé…».
Se poi è un bambino in tenera età,
consolano i genitori dicendo che il loro bimbo «È un angioletto in paradiso…».
Queste espressioni consolatorie
precedono il cristianesimo e sono note fin dall’antichità.
È di Menandro, famoso commediografo
greco vissuto tre secoli prima di Cristo, la celebre frase «Muore giovane colui
che gli dèi amano» (frammento 111 K.-Th), ripresa da Giacomo Leopardi, come
epigrafe per il suo Amore e morte (XXVII): «Muore giovane colui ch’al cielo è
caro».
Nel Libro della Sapienza, la morte del
giovane viene giustificata così: «Il giusto, anche se muore prematuramente, si
troverà in un luogo di riposo […]. Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e,
poiché viveva fra peccatori, fu portato altrove. Fu rapito, perché la malvagità
non alterasse la sua intelligenza o l’inganno non seducesse la sua anima […].
Giunto in breve alla perfezione, ha conseguito la pienezza di tutta una vita»
(Sap 4,7.10-11.13).
A chi non accetta e non si rassegna a
questo lutto, e protesta, dicendo che l’angioletto se lo sarebbero tenuto ben
volentieri nella loro famiglia, ecco tutto un fuoco di sbarramento a forza di
«Accetta la croce che Dio ti ha mandato», «È la volontà del Signore», «È il
Signore che pota», «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto», «La felicità non
è di questo mondo», con tutto l’inesauribile repertorio dell’infinito
stupidario religioso del quale si alimentano insaziabili i pii devoti, più
beoti che beati.
Frasi che non solo non consolano, ma
gettano nel più profondo sconforto quanti sono nel lutto e nel pianto, facendo
nascere un sordo rancore verso questo Dio spietato che toglie, coglie, manda
croci, pota vite e persone, e la cui volontà coincide sempre con la sofferenza
degli uomini e mai, neanche una sola volta, con la loro felicità.
- Padre Alberto Maggi -
frate dell’Ordine dei Servi di Maria
Da: “L’ultima Beatitudine” La morte come pienezza di vita, Garzanti editore
Riappropriarsi della morte Per vivere
serenamente la pur dolorosa esperienza della morte, è importante per prima cosa
riappropriarsi del morire, il momento decisivo nella vita dell’individuo ma dal
quale si è stati a poco a poco espropriati. Verso gli anni Trenta del secolo
scorso, è iniziato il gran mutamento nel concetto del morire e della morte, che
è coinciso con lo spostamento del luogo dove si muore. Il progresso in campo
medico e il rinnovo delle strutture ospedaliere, che da precari ricoveri
assumevano via via sempre più l’aspetto di cliniche ben organizzate, hanno
fatto sì che il morire non avvenga più in casa, tra i propri familiari. Il
decesso avviene quasi sempre in ospedale, tra medici e infermieri, lasciando
così il morente da solo nella tappa fondamentale e più delicata di tutta la sua
esistenza.
Proprio nel momento nel quale è importante più che mai essere
accompagnati, ci si sente abbandonati.
Nelle foto e nei dipinti dei secoli
passati, la stanza del morente era sempre affollata di persone, dal prete ai
familiari, parenti, amici, bambini compresi, che oggi vengono invece
comunemente allontanati per non impressionarli con la vista del cadavere, salvo
poi lasciarli da soli per ore davanti al televisore a impressionarsi di video
truci dove ogni istante qualcuno muore nei modi più violenti.
L’iconografia
dell’Ars moriendi, l’arte del morire, del XV e XVI secolo, presenta infatti il
momento del decesso come una vera e propria cerimonia pubblica. Il morente, che
è del tutto conscio della sua fine imminente, attorniato da familiari e amici,
dal prete che gli ha amministrato l’estrema unzione, vi partecipa, lasciando
non solo l’ultima immagine di sé, ma anche le sue ultime volontà, che saranno
custodite come preziose reliquie dai familiari.
- Padre Alberto Maggi -
frate dell’Ordine dei Servi di Maria
Da: “L’ultima Beatitudine” La morte come pienezza di vita, Garzanti editore
Buona giornata a tutti. :-)