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sabato 1 dicembre 2018

La donna con l'agnello - Leggenda attribuita a sant'Ambrogio

Un caldo giorno d'estate, uno studente attraversava la piazza di una grande città, famosa per la bellezza delle sue antiche chiese. 
Stava preparando la tesi in architettura e voleva includervi la storia di quegli splendidi monumenti. 
Proprio quella mattina aveva deciso di visitare una delle cattedrali più importanti quando, un po' per l'afa fattasi insopportabile, un po' per sottrarsi al rumoroso traffico dell'ora di punta, decise di entrare nella chiesa che si affacciava sulla piazza.
Appena entrato, si guardò intorno con l'occhio attento di chi cerca qualcosa di particolare, ma la chiesa gli parve del tutto normale, comunque offriva un po' di frescura e i rumori della città vi giungevano piacevolmente attutiti.
Ai lati della navata centrale si allineavano piccole cappelle, ognuna con la rappresentazione di una figura sacra e un tavolino in ferro su cui brillavano allegri tanti lumini. Non che lo studente fosse particolarmente religioso ma ormai, dopo gli studi fatti, sapeva riconoscere gran parte delle figure rappresentate in ogni nicchia.
La Vergine... san Giuseppe con il suo bastone... san Pietro crocifisso a testa in giù... E questa? Si fermò incuriosito davanti al quadro di una giovanissima donna che reggeva fra le braccia una foglia di palma e un piccolo agnello.
Quella tela lo affascinò a tal punto da non riuscire a staccarne gli occhi. Così si sedette su un banco da cui poterla comodamente osservare. 
Era certamente una giovane dell'antica Roma: lo si notava subito dall'abbigliamento, ma anche dai tratti del volto con il naso diritto e affilato, gli occhi scuri e penetranti soffusi di fierezza e dignità, l'ovale perfetto e le labbra sottili appena increspate da un sorriso.
Il nostro studente si domandava quale artista l'avesse mai ritratta con tanta maestria... o forse la fanciulla stessa, con la sua conturbante bellezza, aveva dato vita e anima a quella tela.
«Non la riconosci?» gli chiese una voce al suo fianco.
Il ragazzo fece un balzo: era talmente intento a osservare il quadro che non si era accorto di non essere più solo. 
Vicino a lui sedeva una donna anziana e sorridente, bella di quella particolare bellezza interiore che solo l'età sa donare quando la vita ha maturato buoni frutti.
«A essere sincero, non la riconosco proprio. Lei sa chi è?»
«Ma certo» rispose la donna: «porto il suo nome e so tutto di lei... Vuoi conoscerne la storia?».
«Ne sarei felice, ma non vorrei farle perdere tempo...» rispose lui, senza sapersi spiegare il perché di quell'insopprimibile desiderio di ascoltare la storia della "ragazza con l'agnello".
«Non ho problemi di tempo, figlio mio. Allora ascolta...» e l'anziana signora si sedette vicino a lui cominciando il suo racconto.
«Si chiamava Agnese e la sua bellezza, come puoi ben vedere, era straordinaria. Chi la incontrava non poteva che fermarsi ad ammirarla, rimanendo calamitato dall'espressione di quel viso. Non era solo la perfezione delle forme che risaltava in Agnese, ma qualcosa di più profondo, come se un fuoco l'abitasse emanando un alone luminoso.
Di lei era pazzamente innamorato il figlio del prefetto che avrebbe dato qualunque cosa pur di essersene ricambiato. 
Più volte l'aveva chiesta in moglie offrendole quello che nessuna donna in Roma avrebbe neanche osato sperare di possedere, ma Agnese pareva non interessarsi né all'amore del giovane né a quanto lui le offriva.
Un giorno le parve però corretto giustificarsi con lui, sperando che di fronte a un'evidenza che non gli lasciava speranze avrebbe smesso di soffrire. 
Gli confidò quindi di essere già innamorata di un uomo cui nessun altro poteva essere paragonato, che non le offriva nulla di quanto si potesse immaginare ma qualcosa che valeva molto di più. Lo pregò quindi di non tormentarsi per lei ma di rivolgere il suo amore verso una giovane che potesse ricambiarlo rendendolo felice.
A quelle parole, pronunciate con dolcezza ma anche con determinazione, il giovane tornò al suo palazzo in preda alla disperazione, avendo intuito che non avrebbe mai potuto competere con questo misterioso rivale.
Passò un certo tempo e il prefetto cominciò seriamente a preoccuparsi per lo stato di depressione in cui era caduto il figlio. Decise quindi di scoprire chi fosse l'amante di questa cocciuta fanciulla e, forte del suo potere, sguinzagliò i migliori informatori per tutta Roma.
Uno di loro aveva particolarmente in odio Agnese, essendo a sua volta segretamente innamorato di lei e, come spesso accade agli uomini, non gli parve vero di poter distruggere ciò che non poteva avere.
Si recò quindi dal prefetto e gli raccontò di come Agnese facesse parte della setta dei cristiani e, come molti di loro, fosse esperta in arti magiche tanto da dichiararsi perdutamente innamorata di qualcuno crocifisso a Gerusalemme tanti anni prima. Il suo parere personale era che non si può amare qualcuno che neppure si è conosciuto e che, per giunta, è già morto, senza dar segno di un profondo squilibrio della mente, sicuramente dovuto ai malefici influssi di qualche forza occulta.
In parte rincuorato da questa notizia che non prospettava nessun aitante giovane nella vita di Agnese, il prefetto decise di convocarla al suo palazzo per rendersi personalmente conto della situazione.
Quando la vide ne rimase però stranamente turbato: non solo era bella, ma emanava qualcosa di simile a una calda e fluida corrente che faceva vibrare il cuore. Non riuscì neppure a trattarla troppo rudemente, come era sua abitudine. Cercò invece di allettarla con parole e offerte che la sua esperienza sapeva non avrebbero potuto lasciare indifferente una donna.
Ma Agnese non era una donna come le altre e tutto quello che lui metteva in campo, pensando di far presa sulla sua natura femminile, si scioglieva nella totale indifferenza.
Di fronte a tanto evidente insuccesso non poté che prendere il sopravvento la collera e il prefetto passò a ben altri sistemi per tentare di convincere la ragazza a sposare il figlio, non ultima la prospettiva di terribili torture.
La paura che albergava nel cuore di Agnese, come in quello di chiunque altro, in quel momento irruppe in tutta la sua potenza. Era giovane e amava la vita: come non temere il dolore e la morte? 
Le era stato insegnato che la vita era un grande dono divino, ma anche che il coraggio di difendere ciò in cui si crede la rende veramente degna di essere vissuta.
Agnese era perciò confusa: la mente metteva in campo i suoi soldati, uno da una parte e uno dall'altra, come sempre in contrapposizione. Che fare?
Non rimaneva che scavalcare d'un balzo la mente e tuffarsi nel cuore: così la giovane rimase ferma sul suo tenace rifiuto.
"Se lo è cercato proprio lei" pensò il prefetto, come per alleggerirsi da un peso, e convocò per quello stesso giorno il tribunale che avrebbe dovuto giudicare Agnese in quanto appartenente alla fanatica setta dei cristiani.
Contro di loro tuonò il più agguerrito dei giudici romani: "... non si può ulteriormente tollerare un nido di vipere simile a quello nel cuore della città! I cristiani sono dei pazzi, fautori di pericolose utopie e, come tali, vanno distrutti".
Avrebbero però concesso ad Agnese, in virtù della sua incosciente giovinezza, ancora una scelta: avrebbe avuto salva la vita se fosse entrata a far parte delle vestali del tempio.
Ma come avrebbe potuto inchinarsi di fronte a un vuoto simulacro, quando nel suo cuore ardeva la fiamma dell'unico Dio vivente! Il solo pensiero la faceva rabbrividire: il tempio di Vesta sarebbe stato simile a una nera tomba in cui la sua anima sarebbe lentamente morta.
"È la tua ultima possibilità" replicò il prefetto: "o ti unisci alle vergini che onorano la dea Vesta o sarai portata nella piazza delle meretrici e lì la tua sorte seguirà quella delle altre sciagurate che offrono il loro corpo, non a un degno amore ma solo alla bramosia dei sensi".
"Tu non sai quello che stai dicendo" rispose pacatamente Agnese, sicura delle sue parole come mai lo era stata prima d'allora. "Nulla accade fuori dalla volontà divina e se è questo che Lui vorrà nessuno toccherà il mio corpo".
"Stupida ragazza" pensò indispettito il prefetto, chiedendosi con quale demoniaca fattura i cristiani fossero riusciti a irretire quella giovane mente.
La sentenza fu subito emessa: Agnese doveva essere condotta nella piazza delle meretrici, denudata e lì lasciata per il pubblico piacere. Così, caricata su un traballante carro, la giovane cristiana venne condotta nella malfamata piazza, dove ogni più abominevole desiderio della carne poteva essere appagato.
Fu gettata in una cella aperta sulla strada e lì cominciarono a spogliarla. Ma, a mano a mano che le vesti le venivano tolte, i suoi capelli iniziarono a crescere a dismisura, finché la sua nudità fu ricoperta da una folta chioma, pesante e morbida come un prezioso mantello.
La voce che una giovane e bellissima donna era stata portata fra le meretrici attirò un gran numero di persone, ma chiunque guardasse nella cella di Agnese non vedeva altro che una luce abbagliante davanti alla quale non si poteva fare a meno di inginocchiarsi in deferente silenzio.
Il figlio del prefetto aveva seguito tutta questa vicenda con il cuore in tumulto, diviso fra un accecante amore e un odio altrettanto smisurato. 
Potrà sembrare assurdo che due sentimenti a tal punto contrastanti possano condividere lo stesso cuore, ma questa è l'altalena della luce e dell'ombra.
Così una sera, più che mai in preda all'ansia, cercò la compagnia degli amici più intimi con cui cenare e, soprattutto, spegnere nella coppa del vino il suo tormento. Era già notte fonda quando decisero di recarsi nella piazza delle meretrici per dare una bella lezione a quella sciocca cristiana.
Nella piazza si aggiravano ormai poche persone ciondolanti, più preda dell'alcol che del desiderio. Il luogo si presentava in tutto il suo squallore e le celle si affacciavano sul selciato come tante bocche nere e sdentate.
"Entrate voi e divertitevi quanto volete" disse il figlio del prefetto agli amici, mentre i suoi occhi si riempivano di una rabbia spaventosa.
"Sei sicuro di volerlo?" chiese uno di loro.
"Vi ho detto di entrare!" urlò il giovane.
Tornò il silenzio. Solo qualche ubriaco biascicava parole sconnesse e alcune donne ridacchiavano in un angolo.
Non passò molto tempo prima che il gruppo di giovani ritornasse dall'amico.
"Allora?" chiese questi cupo.
"Allora... niente!" risposero quelli con il volto sbiancato. "Dai retta a noi, andiamocene. Lei non è una donna come le altre. O è una dea o è un demone: certamente non appartiene alla terra ma all'Olimpo".
"Stupide femminucce, vi farò vedere io a chi appartiene!" e così dicendo il ragazzo attraversò di corsa la piazza e sparì nel buio.
Oltre quella soglia stava Agnese, la sua adorata Agnese che aveva osato respingerlo e alla quale ora lui avrebbe strappato dignità e vita. E lei era là, brillante come una stella nell'oscurità e altrettanto lontana. Il giovane si bloccò per un attimo soltanto, poi il solo vederla riaccese in lui una fiamma potente come quelle degli inferi.
Si slanciò su di lei come il lupo sul piccolo agnello, ma come le sue mani si posarono sul corpo di Agnese il giovane cadde a terra fulminato.
Quando lo aveva visto entrare, lei aveva tremato di paura, perché più di ogni altra emozione l'amore può manifestare una potenza dirompente; ma poi, guardando il giovane corpo immobile ai suoi piedi, Agnese provò una profonda pietà. Pensò in quel momento che forse aveva amato quel giovane, anche se non come lui avrebbe voluto.
Il prefetto fu subito informato di quanto era accaduto e si precipitò in preda all'angoscia là dove il figlio giaceva. Abbracciò il corpo senza vita e pianse a lungo.
Agnese lo stava osservando con tristezza quando lui le chiese fra i singhiozzi: "Perché hai colpito proprio lui e non gli altri? Perché proprio il mio ragazzo?".
"Non io l'ho colpito! Chi è entrato qui prima di lui ha percepito la presenza dell'angelo inviato da Dio per proteggere il mio corpo, ma solo tuo figlio, accecato dalla passione, ha teso le sue mani su di me e l'angelo lo ha colpito."
"Ora so che il Dio di cui parli è davvero presente e potente. Ti prego, Agnese, chiedigli di avere pietà e di restituirmi l'unico figlio!"
"Io posso chiedere, ma non è in mio potere cambiare ciò che deve essere. Se Dio lo vorrà, tuo figlio ti sarà restituito". Così Agnese si sedette sulle pietre del pavimento e prese nel suo grembo la testa del giovane romano; poi chiuse gli occhi e pregò.
Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte cadendo sul volto senza vita del ragazzo, mentre un alone di luce pareva giocare, accarezzando ora l'una ora l'altro.
Quando lui riaprì gli occhi, vide il volto pallidissimo di Agnese che lo stava guardando e le sorrise. Un'emozione intensa li unì per un breve attimo e da quel momento non si rividero mai più.
Mentre il giovane si rialzava sostenuto dal padre, un drappello di guardie irruppe nella piazza trascinando via Agnese, né qualcuno ebbe modo di salvarla.
Il prefetto e suo figlio, così come coloro che furono presenti al miracoloso evento, si convertirono al cristianesimo, ma dovettero fuggire in gran fretta da Roma e furono perseguitati per lungo tempo come traditori.
Agnese fu invece portata nella prigione del prefetto Aspasio, che la condannò al rogo. Ma, ancora una volta, l'angelo di Dio giocò un brutto scherzo ai suoi aguzzini. Ogni volta che il fuoco veniva acceso, le rosse lingue ardenti danzavano in ogni dove fuorché intorno al corpo della ragazza.
Il fuggi fuggi intorno alla pira era generale, pareva che ogni brace andasse alla ricerca di una persona prescelta e non la perdesse più di mira... successe un vero parapiglia mentre Agnese non veniva neppure lambita da una fiammella.
Aspasio era furente contro quella cristiana che aveva già portato abbastanza guai, trasformando persino il suo predecessore, insieme al figlio e ai suoi amici, in altrettanti fanatici di quel Dio che metteva scompiglio ovunque arrivasse. Era veramente troppo! Decise così che sarebbe stata sgozzata come un agnello.
Era giunto il suo tempo e così doveva essere. Agnese porse la sua gola al boia come l'agnello al macellaio... ma il sangue non scorre mai invano...»
«Scusa, ragazzo, ma non si viene in chiesa per dormire».
Il nostro studente si scosse intorpidito guardando di traverso il sacerdote che lo stava gentilmente scuotendo per una spalla.
«Ma, veramente, stavo ascoltando la storia di questa santa... Agnese, se non sbaglio...» rispose il ragazzo guardando verso l'altare.
«Sì, certo che è Agnese, ma qui da ore non entra nessuno; quindi non vedo chi possa averti raccontato la sua storia» rispose il prete, cominciando a guardare il ragazzo con più sospetto.
«Ma, reverendo, non ha visto una signora anziana seduta di fianco a me?»
«Assolutamente no; e adesso scusa ma ho da confessare. Se vuoi, fermati, ma fammi il piacere di non rimetterti a dormire!» e così dicendo si affrettò verso la sacrestia.
«Agnese...» bisbigliò il ragazzo e, guardando la splendida creatura che teneva tra le braccia la palma del martirio e l'agnello dell'innocenza, le sorrise. Si guardò subito intorno per accertarsi che nessuno l'avesse visto. 
Ora quel gesto gli sembrava sciocco, ma era stato così spontaneo, quasi familiare. 
Non riusciva a staccarsi da quel luogo, ma era tardi e doveva andare. Prima di uscire la guardò ancora... c'era qualcosa di strano... ma cos'era?

-  Leggenda attribuita a sant'Ambrogio - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


Buona giornata a tutti. :-)






sabato 17 novembre 2018

La Messa è finita, andate in pace - Mons. Alessandro Maggiolini

La prossima volta che andate a Messa, provate a far caso, amici: spesso, durante il rito ci si muove a fatica; non si ha la sincronia e lo scatto d'un corpo di ballo quando ci si alza, ci si siede, ci si inginocchia; e le risposte che si danno al prete lungo tutta la mezz'ora sembrano sospiri sommessi, incerti, vellutati, paurosi... 
Ma c'è una risposta che si fa coro risoluto; è l'ultima, quando si sente: «La Messa è finita, andate in pace»; allora è un'esplosione d'esultanza, uno squillo di trombe compatte come una banda: «Rendiamo grazie a Dio». 
E qui c'è lo scatto felino, da centometristi, verso la porta: la chiesa si svuota in un baleno, altro che Berruti o Mennea.
Sto forse esagerando, lo so. Ma so anche che la Messa ha preso il nome proprio dalla conclusione... Ci avete pensato? 
È il sacrificio di Cristo e tante altre cose - il cuore della vita della Chiesa -; eppure... Ite, missa est.

- Mons. Maggiolini Alessandro -




Chiederei d'essere creduto: non sto rimproverando nessuno. 

Sto semplicemente rilevando che la preghiera, spesso, non è una esultanza e una spontaneità: è una fatica e un dovere. 
Bisogna prenderla per quel che è. 
Bisogna adattarvisi con coraggio, anche se impegna maledettamente: perché costringe ad essere attenti; perché impone una sincerità difficilissima verso se stessi; perché mette a confronto con Dio che richiede una conversione mai conclusa; o, più banalmente: perché altre cose aspettano fuori, più piacevoli o comunque meno ardue...
Non è raro udire frasi come: «Io prego quando mi sento»; o: «Non è giusto forzare la persona quando si pone di fronte a Dio»; o: «La preghiera dev'essere gesto spontaneo, istintivo, gioioso: è un atto d'amore»... 
Come se l'amore fosse fatto soltanto di occhi languidi e di attrazione irresistibile, e non richiedesse anche di ricordare gli anniversari, di decidere a chi tocca alzarsi prima dal letto per preparare il caffè, di lavorare sodo, di far trovare la cena pronta, di lucidare le scarpe e altre cose intuibili...

- Mons. Maggiolini Alessandro -


Talvolta ci si imbatte persino in prediche che presentano la preghiera soltanto come un fervore incontenibile: l'acqua per la terra riarsa; l'aria per i polmoni; la luce per gli occhi... Son paragoni frusti che vorrebbero esprimere un bisogno, un'inclinazione a cui non si può resistere...
Mah. Forse qualche volta capita anche così: agli inizi, in certi momenti particolarmente felici. Ma solitamente, ho i miei dubbi.
Non vorrei presentare la preghiera come un castigo: un poco come quando ci si imponeva un rosario, poniamo, da recitare per una marachella... 
Certo fatica è, e dovere: proprio perché è amore. 
Sarò sbagliato, ma se mi affidassi alla pura istintività, alla spontaneità più travolgente, da parte mia - in altri campi - avrei già l'atto fuori un plotone di zie e avrei sulla coscienza più d'un alunnicidio o d'un fedelicidio... 
Comunque non pregherei quasi mai.
Sì, perché è troppo facile insistere sulla non forzatura, sulla propensione, sul desiderio innato e incontrollabile della preghiera per poi non pregare. 
Un poco come quando si dice: a Messa non ci vado, a confessarmi non ci vado, a pregare non mi ci metto, se non mi sento, se non sono preparato. E non si tiene conto che ci si può anche impegnare a sentire, a prepararsi...

Cose ovvie, direte. Certo. Ma siamo così scaltri nell'evitare i doveri, che ci diamo perfino l'aria di persone serie e abissalmente pensose in questi trucchi da bambini. 
Sembra che tendiamo alla mistica più sconvolgente, e invece abbiamo soltanto voglia di veder la partita o di metterci a leggere il giornale. Il Signore aspetti pure...
Posso sembrare un moralista arcigno, e invece sto dicendo a voce alta cose che pensiamo tutti. E sto parlando di gioia, nonostante le apparenze: quella vera, fedele e conquistata...

- Mons. Maggiolini Alessandro -



Giovani si diventa
Auguro una giovinezza perenne e crescente.
Il calendario procede anonimo e freddo, come un destino.
Eppure, l'anagrafe non possiede il mistero dell' età:
diciottenni possono già essere stanchi e sfiduciati e
ottantunenni possono essere inventivi e sciolti,
creativi nell'animo,
come chi ha ancora qualcosa da dire e
progetti da elaborare.
Vecchi si nasce, giovani si diventa.
E il soggetto di questa giovinezza è celato nel cuore che si 
sospende alla semplicità di Dio.

- Mons. Alessandro Maggiolini -



Buona giornata a tutti. :-)

www.leggoerifletto.it


martedì 13 novembre 2018

Se ne avessimo il coraggio, diremmo "No!" al Signore. - padre Anthony Bloom

Quando leggiamo con onestà le Scritture dobbiamo riconoscere che certi brani ci dicono ben poco. 
Siamo disposti ad acconsentire con Dio perché non abbiamo ragioni per essere in disaccordo con lui. 
Possiamo approvare questo o quel comando o quell'atto divino perché non ci tocca personalmente, non cogliamo ancora le domande che esso pone alla nostra persona.
Altri passi francamente non ci piacciono affatto. 
Se ne avessimo il coraggio, diremmo "No!" al Signore. 
Dovremmo prendere l'abitudine di annotare con cura questi brani. 
Sono la misura della distanza che ci separa da Dio, nonché della distanza fra ciò che siamo ora e quel che potremmo essere potenzialmente.
L'evangelo, infatti, non è un succedersi di comandi esteriori, ma un'intera galleria di quadri interiori. 
E ogni volta che diciamo di no all' evangelo, ci rifiutiamo di essere persone nel senso più pieno del termine.

- Anthony Bloom - 
1914 – 2003 
Da “La preghiera giorno dopo giorno” , Gribaudi Editore nella collana Meditazione e preghiera 




Vi sono dei passi dell' evangelo che fanno ardere i nostri cuori, che illuminano la nostra intelligenza e scuotono la nostra volontà. 
Essi danno vita e forza a tutto il nostro essere fisico e morale. 
Questi brani rivelano quelle regioni del nostro intimo nelle quali Dio e la sua immagine coincidono di già; mostrano a che punto ci troviamo, anche solo fugacemente, per un attimo, nella via che conduce a quel che siamo chiamati a essere.
Dovremmo prendere nota con cura di questi passi, con attenzione ancora maggiore rispetto a quella prestata ai brani di cui parlavamo poc'anzi. 
Sono i punti in cui l'immagine di Dio è già realizzata in noi uomini decaduti a causa del peccato. 
Da questi inizi possiamo lottare per continuare a trasformarci nella persona che sentiamo di voler e dover essere. 
Dobbiamo sempre restare fedeli a queste rivelazioni.
Almeno in questo, la nostra fedeltà non deve venire mai meno.

Se facciamo quanto ho appena detto, i brani di questo genere aumentano di numero, gli appelli che l'evangelo ci rivolge si fanno più ricchi e circoscritti, le nebbie a poco a poco si diradano e possiamo scorgere l'immagine della persona che dovremmo essere. 

Allora, possiamo cominciare a presentarci a Dio nella verità.


- Anthony Bloom - 
1914 – 2003 
Da “La preghiera giorno dopo giorno” , Gribaudi Editore nella collana Meditazione e preghiera 


Buona giornata a tutti. :-)






  

martedì 23 ottobre 2018

Né la sofferenza, né la miseria degli uomini sono volute da Dio - frère Roger di Taizé

Alcuni si dicono: se Dio esistesse, non permetterebbe le guerre, l’ ingiustizia, la malattia, l'oppressione, neppure per un solo essere umano; se Dio esistesse impedirebbe all'uomo di commettere il male.

Quasi tremila anni fa il profeta Elia si reca un giorno nel deserto per ascoltare Dio. Si scatenano gli elementi: dapprima un uragano, poi un terremoto ed infine un fuoco violento. Ma Elia capisce che Dio non si trova nello scatenarsi degli elementi naturali.

Tutto poi si placa ed Elia percepisce Dio nel mormorio d'una brezza leggera. Ed è colpito da questa toccante realtà: la voce di Dio si trasmette all'uomo spesso in un soffio di silenzio.

È una delle prime volte della storia in cui si registra questa limpida intuizione: Dio non terrorizza nessuno con mezzi violenti.
Dio mai è autore del male, dei sismi naturali, delle guerre, delle disgrazie terrene.

Né la sofferenza, né la miseria degli uomini sono volute da Dio.

Dio non  s'impone. Ci lascia liberi di amare o di non amare, di perdonare o di rifiutare il perdono. Ma Dio non assiste mai passivamente  ai dolore degli esseri umani.

Soffre  con l'innocente,
in Dio, c'è una sofferenza del Cristo.

- frère Roger di Taizé -


Preghiera di guarigione dai mali spirituali

Padre onnipotente
ed eterno
Cristo Signore
Spirito Santo Amore.

Ti preghiamo con fede, amore e tenerezza infinita di guarire tutti i mali spirituali.
Usaci per guarire, mandaci ad essere tuo strumento umile ed appassionato di guarigione.


Fa che chiunque ci vede possa vedere in noi la presenza viva di Gesù che passa per le strade, nelle famiglie, nei luoghi di sofferenza, guarendo, liberando, beneficando tutti.

Ti preghiamo di guarire i malati dello spirito; passa Signore e guarisci gli apostati che non Ti pregano e non Ti amano, coloro che imprecano e bestemmiano;

Ti preghiamo:
guarisci i malati di tante idolatrie e di tante dipendenze idolatriche;
guarisci gli adoratori di idoli, coloro che praticano magia, spiritismo, cartomanzia, astrologia, negromanzia, satanismo;
guarisci le malattie dovute a dipendenza sessuale, alla sessualità deviante e contro natura;
guarisci dal concubinato, dall'adulterio, dall'abuso sessuale, dalla lussuria, dall'aborto;
guarisci i malati di dipendenza da droghe, da alcolismo, da tabagismo, da abuso di psicofarmaci.

Passa Signore, sana, guarisci!

Guarisci i malati di superbia, di orgoglio, di vanagloria, di invidia, di gelosia, di pensieri di morte, di mancanza di perdono.

Passa Signore, sana, guarisci!

Guarisci i malati di disperazione, gli omicidi e coloro che uccidono con la parola, la calunnia, la delazione segreta, il tradimento.

Guarisci i malati dello spirito attraverso il peccato di mafia, di camorra, di massoneria, di falsità, di tradimento, di sfruttamento economico ed oppressivo, di schiavismo.

Passa Signore, sana, guarisci!

Porta la grazia, la santità, la gioia.



Amen.



Buona giornata a tutti. :)



mercoledì 26 settembre 2018

Amore in meditazione con Thomas Merton

Dio non è un «problema». Noi che viviamo la vita contemplativa abbiamo appreso per esperienza che finché si cerca di risolvere il «problema di Dio» non si può conoscere Dio.
Cercare di risolvere il problema di Dio è cercare di vedere i propri occhi.
Non possiamo vedere i nostri occhi perché è proprio con essi che vediamo. 
Dio è la luce attraverso la quale vediamo, per mezzo della quale vediamo; non un oggetto ben definito chiamato Dio, ma tutto è in lui, l’Invisibile.
Dio è allora colui che guarda, lo sguardo, e colui che vediamo.
Dio cerca se stesso in noi e l’aridità e la tristezza del nostro cuore sono la tristezza di Dio che resta sconosciuto e che non riesce ancora a ritrovarsi in noi, perché noi non osiamo credere e affidarci all’incredibile verità: la sua vita in noi.
Esistiamo solo per questo: essere il luogo della sua presenza, della sua manifestazione nel mondo, della sua epifania. Ma rendiamo tutto ciò oscuro e senza gloria perché non crediamo, rifiutiamo di credere.
Non che noi odiamo Dio, no, odiamo piuttosto noi stessi e dunque disperiamo. Se cominciassimo un giorno a riconoscere, umilmente ma veramente, il nostro reale valore, vedremmo che questo valore è il segno di Dio marcato in noi, il suo contrassegno su di noi.
Fortunatamente l’amore dei nostri simili ci è dato come mezzo per renderci conto di questo valore: l’amore di nostro fratello, di nostra sorella, del nostro amico, di nostra moglie, del nostro bambino ci fanno infatti vedere con la trasparenza di Dio stesso che siamo creature buone.
L’amore del mio amico, della mia amica, di mio fratello e del mio bambino che vedono Dio in me mi fa credere in questo Dio che abita in me. E l’amore per il mio amico o per la mia amica, per il mio bambino mi rende capace di mostrare loro Dio che in essi abita.
L’amore è l’epifania di Dio nella nostra povertà.
La vita contemplativa è la ricerca della pace, non nell’astratta esclusione di ogni realtà esteriore, né in una negazione del mondo sterile e ripiegata su se stessa, ma nell’apertura dell’amore.
Tutto questo comincia con l’accettazione di se stessi, poveri e vicini alla disperazione, per imparare che lì dove c’è Dio, non può esserci la disperazione e che Dio c’è, anche se non ho speranza. Nulla può cambiare l’amore di Dio per me, poiché la mia esistenza è il segno che Dio mi ama, il suo amore mi crea e mi mantiene nell’esistenza.
Non è necessario comprendere come ciò sia possibile, né spiegarlo, né risolvere i problemi che questo sembra sollevare. 
Nel nostro cuore e nella profondità del nostro essere c’è una certezza naturale che è un tutt’uno con la nostra esistenza, una certezza che ci dice che finché esistiamo siamo penetrati da parte a parte dal significato e dalla realtà di Dio, anche se ci sentiamo totalmente incapaci di credere a lui o solo di concepirlo in termini filosofici o religiosi.

- padre Thomas Merton -


Prendi finalmente la mia vita nelle Tue mani, e fa di me tutto ciò che Vuoi.
Mi dono al Tuo amore, e intendo perseverare in questa offerta, senza respingere né le cose dure né quelle piacevoli che Tu hai preparato per me.
A me basta che Tu sia glorificato.
Tutto ciò che hai disposto è bene. Tutto è amore.

– Thomas Merton -



Buona giornata a tutti. :)