venerdì 17 aprile 2020

Piccolissimo omaggio a un grande scrittore Luis Sepùlveda


La più bella storia d'amore

L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio
Che è la strada e la polvere
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
la Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.

- Luis Sepúlveda -


In un prato vicino a casa tua o a casa mia viveva una colonia di lumache sicurissime di trovarsi nel posto migliore del mondo. 

Nessuna di loro si era mai spinta fino al limitare del prato, né tanto meno fino alla strada asfaltata che iniziava proprio là dove crescevano gli ultimi fili d'erba. 
E siccome non avevano viaggiato non potevano fare confronti, quindi ignoravano che per gli scoiattoli il posto migliore era sulla cima dei faggi, o che per le api non c'era posto più piacevole delle arnie di legno disposte in fila dall'altra parte del prato.

- Luis Sepúlveda -

da: Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza, ed. Guanda





"Me ne vado, e tornerò soltanto quando saprò perché siamo così lente, e quando avrò un nome."

Così annuncia alle compagne la sua decisione di allontanarsi la nostra lumaca, suscitando disapprovazione e anche sarcasmo.
Lentamente, molto lentamente, abbandona il rigoglioso prato e la protezione del calicanto e si incammina verso l'ignoto. Vuole incontrare chi potrà offrire una risposta alle sue domande.



- Luis Sepúlveda -


da: Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza, editore Guanda


Lungo la strada incontrerà animali diversi, tra i quali un gufo un po' triste e una tartaruga molto saggia chiamata Memoria. Sarà lei a battezzarla e a dare un senso alla sua ricerca, mostrandole il grave rischio che incombe sul piccolo pezzo di terra in cui vive in pace la colonia di lumache: "La mia lentezza è servita a incontrarti, a farmi dare un nome da te, a farmi mostrare il pericolo, e ora so che devo avvertire le mie compagne."







TITOLO PRIMO Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d'asino rigonfia. 
Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune foglie morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio. 
I pochi abitanti di El Idilio, e un pugno di avventurieri arrivati dai dintorni, si erano riuniti sul molo e aspettavano il loro turno per sedersi sulla poltrona portatile del dottor Rubicundo Loachamín, il dentista, che leniva i dolori dei suoi pazienti con una curiosa sorta di anestesia orale. «Ti fa male?» chiedeva. I pazienti, aggrappati ai braccioli della poltrona, rispondevano spalancando smisuratamente gli occhi e sudando a fiumi. Alcuni volevano togliersi dalla bocca le mani insolenti del dentista per rispondergli con un insulto adeguato, ma le loro intenzioni si scontravano con le braccia robuste e la voce autoritaria dell'odontoiatra. «Sta' fermo, cazzo! Via le mani! Lo so che fa male. E di chi è la colpa? Vediamo un po'. Mia? No. È del Governo! Ficcatelo bene nella zucca. È colpa del Governo se hai i denti marci. È colpa del Governo se ti fa male.» 
Allora assentivano afflitti, chiudendo gli occhi o annuendo leggermente. Il dottor Loachamín odiava il Governo. Odiava tutti i governi dal primo all'ultimo. Figlio illegittimo di un emigrante iberico, aveva ereditato dal padre una tremenda rabbia contro tutto quello che sapeva di autorità, ma i motivi di quell'odio si erano smarriti in qualche baldoria giovanile, e i suoi sproloqui di anarchico si erano trasformati in una specie di verruca morale, che lo rendeva simpatico. Vociferava continuamente contro il governo di turno e contro i gringos che a volte arrivavano dagli impianti petroliferi del Coca, forestieri sfacciati che fotografavano senza permesso le bocche spalancate dei suoi pazienti. Accanto a lui, lo scarso equipaggio del Sucre caricava caschi di banane verdi e sacchi di caffè in chicchi. Sul molo, da una parte, erano ammucchiate le casse di birra, di acquavite Frontera, di sale e le bombole di gas sbarcate in precedenza. 
Il Sucre sarebbe salpato non appena il dentista avesse finito di aggiustare ganasce, avrebbe risalito le acque del fiume Nangaritza per immettersi poi nel Zamora, e dopo quattro giorni di lenta navigazione avrebbe raggiunto il porto fluviale di El Dorado. 
La barca, una vecchia bagnarola mossa dalla decisione del capomeccanico, dallo sforzo dei due uomini robusti che formavano l'equipaggio, e dalla volontà tisica di un vecchio motore diesel, non sarebbe tornata fin dopo la stagione delle piogge, che già si preannunciava nel cielo coperto. 
Il dottor Rubicundo Loachamín visitava El Idilio due volte l'anno, come il postino, che raramente portava corrispondenza per qualche abitante. 
Dalla sua borsa scalcagnata apparivano soltanto documenti ufficiali destinati al sindaco, o i ritratti austeri e scoloriti dall'umidità dei governanti di turno. 
La gente aspettava l'arrivo della barca con la sola speranza di vedere rinnovata la sua provvista di sale, gas, birra e acquavite, ma il dentista era accolto con sollievo, soprattutto dai sopravvissuti alla malaria, stanchi di sputare i resti della dentatura e ansiosi di avere la bocca libera da schegge per provarsi una delle protesi bene ordinate su un tappetino violetto dall'aria cardinalizia. 
Bestemmiando contro il Governo, il dentista ripuliva le gengive dagli ultimi pezzetti di dente e subito dopo ordinava loro di sciacquarsi la bocca con acquavite. «Bene, vediamo un po'. Questa come ti va?» «Mi stringe. Non riesco a chiudere la bocca.» «Cazzo! Che tipini delicati. Forza, provatene un'altra.» «Questa mi sta larga. Se starnutisco, la perdo.» «E tu non prendere il raffreddore, coglione. Su, apri la bocca.»

E loro gli obbedivano. Dopo essersi provati diverse dentiere trovavano la più comoda e discutevano il prezzo, mentre il dentista disinfettava le altre immergendole in una marmitta piena di acqua bollita e clorata.


- Luis Sepúlveda - 

Da: Il vecchio che leggeva romanzi d'amore (Un vejo que leía novelas de amor, 1989),editore Guanda

 


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Buona giornata a tutti. :-)



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